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The Help
Anno: 2011
Regista: Tate Taylor;
Autore Recensione: Roberto Matteucci
Provenienza: USA;
Data inserimento nel database: 23-01-2012


“18 people were killed in Jackson that night. 10 white and 8 black. I don't think God has color in mind when he sets a tornado loose.” Jackson, Mississippi, anni sessanta. All’arrivo di Obama, primo presidente degli Stati Uniti nero, mancano ancora cinquanta anni.. La schiavitù è stata abolita da un secolo, passi avanti sono stati compiuti, però la provincia americana, lungo il fiume Mississippi, nasconde al suo interno pregiudizi ed preconcetti difficili da abbattere. Sono gli anni di Martin Luther King, gli anni del presidente Kennedy. Con le loro parole e i loro comportamenti stanno cercando di sfasciare il muro di separazione fra bianchi e neri. Il regista Tate Taylor descrive quegli anni di diffidenza e di malcontento, portando in rilievo la drammaticità delle condizioni umane e sociale della popolazione di colore. Contemporaneamente usa un tono leggero e di sottile nostalgia. La malinconia è doverosa, essendo il regista nato a Jackson. Nonostante il suo destino lo abbia portato fuori del suo paese, il sottile riflesso della condizione sociale è impresso nel suo dna. Il suo è un film cromatico, la dettatura della cifra stilistica è l’abbondante candore, un’esaltazione del bianco, di un sole accecante i cui riverberi lucenti riempiono tutte le sequenze. La traboccante vegetazione fiorita e spumeggiante, le strade sabbiose sono una celebrazione della solarità e dello scintillio. A questi colori chiari si devono aggiungere le imponenti messa in piega delle donne del tempo, e i loro tailleur vivaci, con colori luminosi o con fiori nitidi. Tanto candore cromatico, e tanta luminosità è interrotta da piccoli nei. Queste macchie sono delle volitive e coraggiose donne nere, le quali vivono del loro lavoro, di dedizione e d’amore. Il nero di queste donne apre uno squarcio nella luce; emerge la loro condizione umile e popolare, ma nello stesso tempo una volontà superiore rispetto alla pigrizia emergente di cui sono circondate. La meticolosità del dettaglio, il richiamo pignolo all’oggettistica del tempo e la sua trasparenza conducono il regista alla finalità della sua storia. Il film parla di donne. Esclusivamente donne: bianche e nere. Gli uomini sono esclusi, sono defilati, inesistenti, delle parvenze di virilità, pronti a fuggire quando chiamati in causa. Non sono capaci di prendere iniziative e hanno delegato la loro vita alle mogli. Il confronto è tutto al femminile. Da una parte un gruppo di ragazze giovani, belle, ricche – perché hanno sposato degli uomini ricchi – ma nello stesso tempo pigre, incapaci di lavorare e di gestire una qualsiasi attività. Una donna sposata dovrebbe essere abile, almeno, nella gestione dell’economia della casa, e dei figli. Loro sono delle “Bambine che si mettono a fare bambini”, sono solo delle bambole, piene di inutilità mentale. Non ci possiamo aspettare che una Barbie allevi e cresca una famiglia. Questo vuoto di futilità, incapacità e stupidità è riempito dalle loro cameriere nere. Queste sono delle donne esperte nella gestione della casa; sono delle lavoratrici, donne - magari cresciute troppo in fretta - ma adatte a crescere dei figli e soprattutto ad amarli. Le cameriere sono tante, ognuna di loro ha la propria famiglia bianca da accudire. Questi due gruppi di donne si affrontano quotidianamente. Non è una lotta semplice, perché nonostante tutto il pregiudizio prevale: “Hanno malattie diverse dalle nostre.” La battaglia scoppierà per una questione di ostilità scatologica. La partenza è sull’uso dei bagni e si finisce con un pullulare di scatofagia. È proprio il fervore e l’alacrità sulle deiezioni umane a rendere il racconto più leggero, perché la sua ripetizione consente al film di tenere un ritmo delicato, nonostante i miasmi dell’argomento. A rompere lo status quo dell’imperante razzismo sono due donne bianche. Eugenia Skeeter Phelan. Nata a Jackson, allevata da un’amata tata nera e si è poi trasferita a studiare a New York. Il suo sogno è scrivere un libro, e trova nel modello di vita delle domestiche uno spunto originale. Celia Foote ha sposato il partito più desiderato dalle donne di Jackson, sottraendolo alle loro mire. Questo ha però provocato moltissime gelosie ed invidie, e un ostracismo violento e totale alla sua persona. Lei è emarginata. Non conosce nessuno. Desidera avere una cameriera nera perché tutte hanno la loro domestica, però nessuna vuole lavorare per lei. È rifiutata pure dalle colf nere. Queste due donne – diafane come le altre, ma più ingenue che superficiali – saranno capaci a squarciare il conformismo del paese. Loro, separatamente, porteranno alla luce le nefandezze umane di tutte le donne del posto. Si alleano con due donne nere – Aibileen e Minny –, le quali con la loro vita passionale, dura ma piena d’amore, evidenzieranno lo squallore di personalità vuote. Saranno i bambini a mostrargli l’amore, perché loro sono indifferenti al colore. La bambina bianca corre verso Aibileen e gli grida: “Tu sei la mia vera mamma.” Il film vive di colore, di confronto, di comparazione fra donne, mischiando il dramma umana e la leggerezza della vivacità femminile. Perché, nonostante il lavoro, l’emarginazione, le sofferenze, le donne nere sono capaci di ridere, di avere dei momenti di spensieratezza. Le donne bianche invece vivono nella sporcizia dell’incapacità, della falsità nelle loro relazioni d’amicizia. Bugie, competizione sono il cibo quotidiano della loro vita. Sullo sfondo di una terribile Mississippi, segnata dalle immagini di una recitazione angosciante delle leggi razziali esistenti nel tempo, il film muliebre destina tutte le sue forze nella descrizione della femminilità. I vincitori sono due donne nere e due bianche, capaci ad offuscare le regole assurde del tempo. Minny non ha mai bruciato un pollo fritto, eppure nella gioia di correre dall’amica per festeggiare il libro, questo accade. Perché la pellicola esalta l’amicizia leale, attendibile, genuina, quell’incapace di tradire. Tanti personaggi, sempre donne, assemblano la pellicola concependo un risultato corale, quasi per contrassegnare il dibattito politico della scatologia emergente. Perché anche i prodotti fecali del nostro corpo possono essere politici se usati con lo scopo di scardinare le ingiustizie.