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La chiave di Sara - Elle s'appelait Sarah
Anno: 2010
Regista: Gilles Paquet-Brenner;
Autore Recensione: Roberto Matteucci
Provenienza: Francia;
Data inserimento nel database: 16-01-2012


“Questo lavoro è necessario e anche catartico.” Nel luglio del 1942 a Parigi, polizia e gendarmeria francese, compirono un rastrellamento d’ebrei nei vari quartieri della città. Migliaia di ebrei - uomini, donne, bambini - furono raccolti nel velodromo di Vel' d'Hiv Roundup. Solo poche centinaia sopravissero. La chiave di Sara inizia con una gioiosa allegria di due bambini per i loro giochi. Sono due ragazzini ebrei: Sarah e Michel. L’allegria iniziale è sempre propedeutica a tragedie umane inimmaginabili. Infatti, il loro divertimento è interrotto dall’ingresso della polizia per trasportare tutti in un campo di concentramento. Con il loro arresto, si conclude la prima sequenza, per riprendere a Parigi nel 2009. Nella capitale francese, la giornalista newyorkese Julia sta scrivendo un pezzo sui rastrellamenti d’ebrei. Il film si ritrova con due strutture temporali parallele. Gli avvenimenti della piccola Sarah durante la seconda guerra mondiale e i tentativi di Julia a ridare dignità e verità ai fatti del tempo. “La verità ha un prezzo, che ti piaccia o no” e, infatti, la sua ricerca si scontra con una propria difficoltà umana: l’essere madre, l’invecchiare in contrasto con un marito egoista. Struttura del genere richiederebbe un filo conduttore di spessore. Qui, l’elemento in comune è un armadio in un appartamento di Parigi: il quale ci riconduce alla chiave di Sarah. La storia è una delle tante descritte nell’abominevole squallore umano del periodo. La piccola Sarah è una ragazzina costretta ad affrontare un mondo disumano senza avere un minimo di conoscenza delle peccaminose assurdità della vita. Il regista si concentra su di lei per commuovere, per scuotere il nostro animo. Il suo viso dolce, la sua manina protesa verso la mela sono gli elementi cardini, i quali scoprono il dramma della colpevolezza dei francesi: l’operazione di rastrellamento non fu eseguita dai tedeschi ma esclusivamente dalle loro truppe. Fosse stato nel primo caso la coscienza d’oltralpe sarebbe stata immacolata, poiché fu completamente diverso, al film è richiesto uno svolgimento purificatore. Nelle ‘’stigmati’’ di un poliziotto francese, impietosito da Sarah, c’è riscatto della tragedia transalpina. Lui con un gesto repentino aiuta le bambine, afferra il filo spinato con le mani nude, ferendosi nella mano come un novello San Francesco sul monte Verna. Il sangue esce, probabilmente non pulirà la sua coscienza ma il dolore della lacerazione lo ricongiungerà alla sofferenza di un popolo. In una Francia devastata, l’umanità di alcuni personaggi, assolverà gli errori di tanti. Eppure dovrà essere un’americana a ricostruire il passato, costringendo a rendere pubblici i tanti segreti. È il segreto ad impreziosire la storia. Tutti conoscono una parte, e la tengono nascosta, velata. Metafora ovvia di una Francia rea di genocidio, con tanti criminali, i quali dopo le loro nefandezze si sono eclissati. La nazione di Charles De Gaulle, dopo aver mitizzato la loro resistenza, è costretta invece a nascondere certe pagine infami. Le vicende del rastrellamento, del velodromo, dei campi sono un segreto, una vergogna; tutti vorrebbero far sprofondare la verità nell’abisso. Lo slogan è: non aprite quel armadio, e se dovesse succedere dimenticatelo! La chiave non sarà quella di Sarah, ma quella metaforica di Julia, la quale collega presente e passato, contribuendo a squagliare i segreti sui quei momenti devastanti. Il linguaggio è tutto nell’impietosire. Il personaggio Sarah riesce meglio di quella noiosa chiave trascinata per tutto il film. Perciò la struttura s’indebolisce, la storia si imbruttisce. Gli avvenimenti personali di Julia sono patetici e scostanti rispetto al dolore di Sarah. Non si riesce a comparare le due donne. Ad emergere è un profondo desiderio di Prozac per cacciare la depressione. Come molte pellicole tratti da romanzi voluminosi, si parte centellinando la storia per poi cominciare a correre verso il finale. E come in una maratona di ubriachi entrano persone, le quali rimangono in piedi massimo un minuto per poi precipitare nell’oblio. Sicuramente nel libro hanno peso e carattere, mentre nel film sono presenti con il fiatone per voler chiudere la storia a tutti i costi. E così succede anche per la Chiave di Sarah. La terapia del dolore avrebbe successo se portasse ad un registro umano reale. Invece in questo caso il dolore e come il film: sembra non finire mai.