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Sherlock Holmes: Gioco di ombre - Sherlock Holmes: A Game of Shadows
Anno: 2011
Regista: Guy Ritchie;
Autore Recensione: Roberto Matteucci
Provenienza: USA;
Data inserimento nel database: 27-12-2011


“C’è ne anche un altro?” C’è ne saranno ancora tanti altri di Sherlock Holmes. La frase è pronunciata dalla moglie di Watson ed è articolata con raccolto stupore all’apparizione inattesa di Mycroft Holmes, fratello di Sherlock. Dopo il successo del primo, il regista Guy Ritchie, ci riprova raccontandoci il suo maniaco Sherlock Holmes, in Gioco di Ombre. Siamo nel 1891, l’Europa è minacciata da attentati, da intrighi mortali e sconvolgenti. Tutto sembra indicare la soluzione più ovvia e banale, le voci segnalano la minaccia provenire da una fonte precisa, ma la ragnatela spropositata è smontata pezzo dopo pezzo da un deduttivo e allucinato Sherlock Holmes. Perché piace tanto questo personaggio? Il ricordo classico, del libro è quello di un Holmes intelligente, volitivo, precoce, ma anche misantropo e scontroso. Guy Ritchie stringe queste caratteristiche e le istiga ad un esagerato fondamentalismo. Abbiamo, quindi, un investigare pazzo, infantile, trasandato, psicotico, pieno di se, egoista, senza amici, indifferente. E’ esagerato in tutti i suoi atteggiamenti. Ma non è privo di humor. Sa essere divertente, galante, ironico ed autoironico come nel suo irridente travestimento da donna con barba. Ma si atteggia pure in modo sexy passeggiando nudo. Le sue ingegnose e perspicaci predizioni sono frutto di una solitudine profonda. Il solito atteggiamento spavaldo è rimpicciolito durante il matrimonio del sodale Watson, perché in quel momento sta rischiando di perdere l’unico suo amico, abbandonandolo in un deserto di intelligenza vacua. Rapportare questo personaggio al cinema richiede un linguaggio accentuato e spropositato, con una camera impazzita e situata in ogni dove. E questo fa Guy Ritchie. Le scene sono a volte accelerate, a volte rallentate. Entrambi le tecniche servono a dimensionare il personaggio sopra di tutto. Intorno c’è lo sfondo di Londra, di Parigi, della campagna, di una fabbrica. Le inquadrature sono degli straripamenti di gente, di oggetti, di grigio, di movimento. Sono tutti ammassati all’inverosimile, caotiche nella loro perfezione, ma anche finte. È proprio la finzione di tutto a comprimere fino alla sua deflagrazione un Holmes geniale ma anche umano. Sherlock Holmes è finzione, tutto il film è una recita continua, e tutto per renderlo più reale e comprensibile. La velocità e il ritmo sono il frutto di tanto benemerito lavoro, eseguito in produzione e in post produzione; il risultato è ad immagine e somiglianza di Holmes: una pellicola psicotica, nevrotica ma anche umana e commovente. Sono tanti i topos del cinema presenti: il cattivo Professor James Moriarty, un treno in corsa veloce come simbolo del luogo chiuso, il viaggio in Europa, l’isolamento del castello svizzero. Emotivamente è la solitudine di Holmes a prevalere. Ma importante è anche il profondo valore d’amicizia fra l’investigatore ed il suo medico. È un sentimento riconosciuto e lampante; infatti il ballo fra i due uomini, nel galà ricolmo di Primi ministri ed ambasciatori, avviene nella più scontata indifferenza generale. Quella indifferenza simbolo di una ironia profonda, e di una amicizia umana e virile. Nel film appare miracolosamente anche il fratello di Holmes. Un Stephen Fry sempre più inglese e pacifico, il quale ostenta con nonchalance la sua ingravida nudità.