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Offside
Anno: 2006
Regista: Jafar Panahi;
Autore Recensione: Roberto Matteucci
Provenienza: Iran;
Data inserimento nel database: 16-05-2011


“Il mio problema è che sono nata in Iran.” Jafar Panahi regista iraniano è in carcere da qualche mese. Ha avuto una condanna a sei anni e il divieto di girare film nei prossimi venti anni. Accanto a lui si è mosso un tenue movimento internazionale di solidarietà, flebile ed imbarazzante per la sua incapacità. Qualche sedia lasciata vuota, delle vuote parole di circostanza, oltre a questo il deserto dei pensieri. L’impossibilità di costruire un gesto significativo è ostacolato da una autocensura individuale nei confronti di alcune situazione politicamente non corrette. Fosse stato arrestato negli Stati Uniti avrebbe avuto un movimento di protesta significativo e combattivo. Il problema di Panahi è quello descritto da una delle ragazze delle film: “Il mio problema è che sono nata in Iran.” Una di queste poche silenziose ed invisibili proteste è l’uscita del film Offside. E’ l’8 giugno del 2005. Teheran è in fermento. I giovani – festosi, colorati, chiassosi – di tutto il paese stanno correndo allo stadio per assistere alla partita di calcio Iran Bahrein. E’ l’ultima partita del girone e la vincente sarà qualificata ai mondiali in Germania del 2006: quelli intrepidamente conquistati dall’Italia. Con tutti i mezzi possibili, i tifosi, attraversano la città verso una unica meta. Sono addobbati con i colori iraniani, hanno magliette delle squadre di calcio di tutto il mondo, sono felici ed insieme partecipano ad un evento importante. E’ la storia dell’Iran. Due mesi dopo Mahmud Ahmadinejad diventerà presidente dell’Iran, bloccando e reprimendo un rivolo tenue e giovanile di speranzosa ribellione. Nel film l’impalpabile fermento giovanile è tutto al femminile. In Iran alle donne è impedito di assistere allo stadio alle partite di calcio. Un gruppo di sfacciate ed impertinenti ragazze si affaccenderanno nel tentativo di entrare ugualmente. Per poterci riuscire devono travestirsi da uomini: divertente ed ironica la ragazza travestita da soldato. Molte saranno fermate e tenute rinchiuse per tutta la partita. Da qui inizia il film. Alcune ragazze sono sorvegliate dai soldati all’interno dello stadio, con la possibilità di sentire i rumori ma senza vedere la partita. E’ la storia infelice dell’Iran: espressa nel confronto fra le divertenti ragazze e dei cupi e tristi militari. Alcuni provengono dalla campagna dove la dimensione femminile è ancora più problematica. Come in un balletto le ragazze si muovono gentilmente e delicatamente – nonostante le maschere maschile – sullo sfondo di un muro. Scagliano, come dardi velenosi, degli affondi sui soldati; in brevi dialoghi non ottengono il loro consenso, ma la loro confusione. Il divieto di partecipare alle manifestazioni sportive è un retaggio storico, oramai incompreso sia dai coscritti campagnoli sia dai giovani tifosi pronti ad aiutare le ragazze a scappare. Due mondi diversi al confronto. Due realtà impossibili da convivere nel breve periodo. Ma una speranza persiste ed arriva da giovani ragazze vogliose di vivere e di essere simili alle loro coetanee di tutto il mondo. Al loro livello, ma in una direzione diversa, c’è il capo dei soldati. Un campagnolo, un ragazzo semplice, buono; preoccupato per i genitori e per la sua terra. Non ha astio, acredine nei confronti delle imboscate ma è desideroso di una vita pacifica. Soldati e ragazze appartengono allo stesso mondo. Un film ricercato nel suo linguaggio; donne, soldati, tifosi abbracciano una unica fede: quella del calcio. E’ la seconda chiave di lettura, oltre la classica repressione e dell’integralismo iraniano, c’è la passione del calcio. Sport popolare per antonomasia, ricco di vari specie umane; rappresenta da sempre la volontà della gente comune, quella invisibile ma vera, di cui si richiede la partecipazione solo durante le grandi esigenze dei potenti. Il calcio è il termometro della vita sociale, è la libera scelta di un popolo. Pahavi si serve sia della sua metafora sia del suo significato letterale. Della partita non vediamo nulla. Riusciamo ad ascoltarla, insieme alle recluse, attraverso la campanilistica cronaca del soldato o dai tanti rumori e dagli effetti acustici: sfondo da sempre di un match. La classe di Pahavi è espressa dai suoni, dalla dolcezza dei movimenti delle ragazze, dai loro bizzarri vestiti, senza però mai scendere nei pietismo e nella autoreferenzialità. Anzi, diverte con leggera ironia con gli spassosi scontri ragazze-soldati o il divertente siparietto recitato da un gruppo di ragazzi per costringere l’autista di un pulman a riprendere il viaggio. Ma il meglio è rappresentato dall’episodio ameno della ragazza con impellenti necessità corporali e il suo accompagnamento nei bagni dello stadio, obbligatoriamente ed unicamente maschili. Pahavi, nonostante avrebbe tanti motivi, ci diletta senza urlare, senza inveire ma soprattutto senza annoiare, consentendo al suo messaggio di arrivare forte e chiaro.