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Hereafter
Anno: 2010
Regista: Clint Eastwood;
Autore Recensione: Roberto Matteucci
Provenienza: USA;
Data inserimento nel database: 18-01-2011


Clint Eastwood affronta con coraggio il tema della morte. In Gran Torino il problema della morte è intenso e lancinante. Walt Kowalski sta per morire – e non solo fisicamente – ed è consapevole dell’arrivo prossimo della sua dipartita. Scaccia la paura e lo sgomento affrontandola a viso aperto e decidendo di sacrificarsi per una persona a cui vuole bene improvvisamente. In Gran Torino nulla è metafisico, tutto è decisamente molto materiale: l’organizzazione della sua morte e le sue volontà; nonostante il prete, polacco e cattolico, cercherà di trovargli la sua dimensione spirituale. In Hereafter Eastwood va oltre alla morte, vuole indagare sull’aldilà - Hereafter. Domanda: quale sarà la nostra sorte? Dove andremo a finire? Risposta sicura e certa: non lo so. “Nonostante le tante sedute non so dove vanno.” Risponde sconfortato il medium. Eastwood abbandona l’eroico e virile atteggiamento e si pone a metà strada: osserva, guarda, si interroga e finisce con lo sperare. Cosa succede dopo la morte è parte dell’intrinseca debolezza fatale degli esseri umani; ci poniamo il quesito solo per procurarci del dolore perché in realtà non esiste una risposta univoca. Ad eccezione dei credenti! Ed ecco apparire il protagonista mancante di un film sulla morte: Dio. Però Eastwood non è un ateo. Nel film è assente all’arrogante certezza di onnipotenza dell’ateo; egli potrebbe essere un non credete e come tale si pone moltissimi dubbi. Scettico decide di non parlare di Dio solo perchè crea il personaggio di George Lonegan – un ispirato e stanco Matt Damon. E’ lui il ‘’Dio’’ di cui non c’è traccia nel film. E’ lui il vero medium; mentre i veggenti intorno a lui sono solo degli imbroglioni imbonitori la cui finalità è approfittarsi delle miserie e delle disperazioni di persone sconfortate da una perdita ritenuta ingiusta. George riesce a contattare i morti, gli parla, li capisce e da sollievo ai parenti in vita. “Ma una vita in cui si parla sempre di morte, non è vita.” Infatti George è sofferente, tormentato, triste ed abbandonato da chiunque provi ad avvicinarsi a lui. L’unico sollievo lo trova nelle parole dello scrittore Charles Dickens. E’ lui ad avere un immenso bisogno di aiuto. Cerca di sottrarsi come un Messia dalla folla alla ricerca del miracolo: lo cercano, lo supplicano di contattare i defunti, ma loro seguono il loro interesse personale non c’è nessuno – neppure il fratello - interessato a lui, al suo dramma, nessuno si vuole impegnarsi per lui. Lui non si può salvarsi, è un predestinato; il suo è un calvario e deve portare la sua croce in giro per il mondo. Il film ha tre strade parallele. Ha tre città protagoniste: Parigi, Londra e San Francisco. Si parte dallo tsunami in Asia nel Natale del 2004 e ci si ritrova a Londra a luglio del 2005 nel momento dell’attentato alla metropolitana. Momenti storici e tangibili; vicende concernenti un lutto collettivo. Sono attimi utilizzati per incrementare la tensione, la drammaticità della pellicola, perchè a volte rischia di scivolare e di perdersi in una nebbia fitta composta da irrealtà e dubbi enfatizzati. Eastwood, ha dalla sua la forza di una bravura estetica, utilizza dati concreti per dare solidità alla storia affrontando il tema della morte in modo diverso. Non tratta il problema dell’anima e neppure quello del peccato. Nessuna differenza c’è fra i morti, stanno tutti insieme nello stesso luogo: sia le persone buone sia gli stupratori di figlie. La mancanza di giustizia e moralità non appartiene invece a Eastwood. Allora vuole dare una struttura di solidità ai personaggi, concentrandosi sulle persona rimaste in vita rispetto ai morti. Cécile De France è Marie LeLay, una giornalista francese ‘’morta’’ per qualche istante. Marcus è invece il fratello gemello sopravissuto a Jason, morto per sua colpa. La camera zooma in tanti primi piano, i visi occupano l’intero schermo. Tanti sono giochi di luce ed ombra: soprattutto i volti sono sempre metà in luce e metà in ombra. Tanti passaggi di camera da un personaggio all’altro, veloce a seguire le parole; tanti i confronti vis-à-vis fra gli attori. Questo concede al film l’opportunità di originare una dicotomia tra bene e male, tra giustizia e prevaricazione. Soprattutto ci costringe a pensare e riflettere sulla capacità umana a comprendere la morte. All’infimo e sempre sterile tentativo di comprendere sempre tutto. Se neppure Dio-George sa dove sono i morti chi può saperlo? L’interrogativo è d’obbligo nel film. Questo perché l’uomo è debole e limitato, con le sue forze non può rispondere alla chiamata della voce dall’infinito. Non ci sono certezze, salvo la bellezza del film, nonostante le difficoltà della sceneggiatura, di una storia poco solida, di personaggi in costante travaglio. Eastwood miscela il tutto: usa la sua abilità tecnica, il suo linguaggio cinematografico e rende il prodotto peculiare. Un cinema sulla morte diverso – non ci sono fantasmi e spiriti, non c’è reincarnazione – ma solo tanta ansia. Preferisco la morte catartica di Gran Torino: reale e vera. Kowalski è il personaggio schietto, immediato, cattivo; è un Eastwood decisionista con scelte certe e dolorose rispetto agli oscuri dubbi impenetrabili di Hereafter.