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Children of Heaven Anno: 1998 Regista: Majid Majidi; Autore Recensione: adriano boano Provenienza: Iran; Data inserimento nel database: 17-07-2000
Children of Heaven
CHILDREN OF HEAVEN
Regia e sceneggiatura: Majid Majidi – Fotografia: Parviz Malekzadeh – Montaggio: Hassan Hassandost– Musica: Keivan Jahanshahi – Suono: Yadollah Najafi – Interpreti: Mir Farrokh Hashemian (Alì), Bahareh Seddiqi (Zahra), Mohammad Amir Naji (il padre), Fereshte Sarabandi (la madre), Nasifeh Jafar Mohammadi (Roya), Kamal Mirkarimi (il preside), Dariush Mokhtari (il maestro), Bezhad Rafi'i (l'allenatore)– Iran, 1997, 88’. (Miramax)
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A causa dello smarrimento di un
paio di scarpe della sorella un ragazzino iraniano si può trovare a nove anni
ad affrontare dilemmi etici immersi in un flusso di eventi quotidiani, semplici
al punto da trovarsi infitto nello sconcerto per la vittoria. La questione del
cinema nel paese di Kiarostami e Makhmalbaf sta tutta in questa dicotomia tra
intensità di spunti poetici che sconfinano nel ritratto morale e i modi di
raccontare radicati nella tradizione neo-realista.
Gli elementi del film si
affastellano tutti nei primi minuti. La scarpa in riparazione dal ciabattino è
la primissima inquadratura e possiede una notevole potenza evocativa:
un'immagine-affezione collocata all'inizio, e con quella lunghezza, si inserisce
nella tradizione del neorealismo, facendo assurgere la scarpa al rango di
un'icona attorno alla quale si viene a creare una coorte di elementi che
l'indulgere lungamente sulle mani callose e sull'ago nella tomaia non
introducono soltanto l'argomento, ma servono ad anticipare una serie di momenti poetici affidati ad
oggetti captati intenzionalmente dalla mdp, scevri da retorica, nonostante l'insistenza avvertita. E subito dopo vengono elencate: la perdita delle scarpe dal verduriere, la figura del cieco (luogo comune del
cinema iraniano), la famiglia in ristrettezze, la madre incinta e il padre
irritabile, che scambiandosi discorsi estranei ai dialoghi e agli sguardi del
resto del film accentuano la loro distanza dalla dimensione infantile, presupposto
del primo sguardo e di tutti i punti di vista della pellicola, ai quali invece lo spettatore è invitato ad aderire e a cogliere dall'interno di quel mondo. Tutto viene narrato in brevissimi quadri, poi, una volta sbrigata la pratica della trama, gli autori si abbandonano allo stato d'animo dei ragazzini; a cominciare dal
mirabile scambio di frasi tra i due fratelli vergate su un foglio, fingendo di
svolgere i compiti sotto l'occhio ignaro dei genitori: la macchina da presa
agisce ad altezza dei bambini accucciati sui tappeti - bellissimi per noi l'esotismo
degli interni, curati e a disposizione della narrazione come ulteriori elementi narrativi. Non è nemmeno una
geniale espressione di una filosofia come l'altezza zen di Ozu: in questo caso
il taglio basso delle riprese dei due bambini alternate alle plongée sui
messaggi esprime il concetto di mondo a parte, fatto di apprensioni,
complicità, decisioni e soprattutto lettura del mondo adulto che condiziona le
scelte segrete dei bambini.
Essi sembra destino che nei
film iraniani debbano sempre correre. Davandeh (Il corridore di Naderi ,
1985) si confonde con i protagonisti di Panahi passando attraverso i patemi
derivanti dalla figura burbera dei presidi già in Mosafer (Il
viaggiatore di Kiarostami, 1974), lasciando permanere quell'impressione di
allegoria non esplicitata fino in fondo: la corsa come necessità di esprimere
se stessi da parte dei ragazzini; liberatoria era in Naderi, dove lo
scioglimento del ghiaccio era il fattore che produceva intensità drammatica,
mentre qui invece la catarsi è sostituita dalla frustrazione e l'azione
drammatica si completa più concettualmente attraverso il paradosso di mancare
il traguardo tagliandolo per primo, perché solo al terzo regalano le scarpe
promesse alla sorellina. In ogni caso la costante è un epilogo indefinito che
oscilla tra la dimostrazione della propria volontà e la sensazione di
sconfitta: il ragazzino che nel film di Kiarostami faceva carte false per andare a vedere la partita,
arrivava a Teheran, ma si addormentava senza assistere al match, tuttavia s'indovinava una crescita; Il corridore fermava l'ultimo fotogramma su vampate di fuoco che scioglievano il ghiaccio, lasciando il
finale aperto e qui il giovane è affranto per la propria vittoria inutile, ma i
suoi piedi tumefatti sono consolati dai pesci, come per una ricompensa.
Il fatto che i due ragazzini
siano ripresi spesso mentre sono impegnati ad arrancare tra le stradine di
Teheran conferisce molto brio al racconto – che sarebbe compreso già tutto
nelle prime sequenze – attraverso l'impegno podistico di usare a turno l'unico
paio residuo di scarpe, scambiandosele lungo la strada verso la scuola. È in
quei frangenti che la fantasia degli sceneggiatori intarsia il racconto con
spunti tragi-comici come la caduta di una scarpa – troppo larga per la bambina
– in un canaletto di scolo. Sono episodi che fanno parte del modo di infarcire
la storia con spezzoni, che corrispondono a siparietti nella sceneggiatura,
sempre presenti nel cinema iraniano, che consentono una pausa del racconto
principale e aprono uno squarcio sulla società. Potrebbero essere eliminati,
però sono in realtà il succo del film; attraverso la rincorsa della scarpa
caduta nel rigagnolo o durante il tentativo di ottenere lavoro come giardinieri
(risolto in un pomeriggio in cui si ricompongono i ruoli ragionevolmente: il
giovane spensierato a giocare e il padre finalmente in grado di guadagnare
qualcosa), piuttosto che nelle innumerevoli sequenze scolastiche si passano in rassegna
tasselli omogenei utili per comporre l'immagine di un Iran preservato dalla
corruzione dei "valori" occidentali e ancora pervaso da emozioni
semplici, in cui possono sbocciare impensate solidarietà e gesti generosi, ed
esistono ancora figure autorevoli di cui avere timore, non nascoste da feroci
maschere di apparente democrazia, ma tangibili presidi, che incutono timore
come i latrati dei cani dei ricchi, cui in un sussulto di dignità si può
rispondere al momento di venire pagati per il proprio lavoro: "Il denaro
non è importante", come a ribadire una ritrosia verso qualunque forma
simile alla carità. In questo caso il carattere di episodio comico viene
sottolineato dall'epilogo della bici senza freni schiantata contro l'albero.
Non si annoverano soltanto
inserti al limite dello stucchevole, che sono pregevoli per la naturalezza con
cui ad esempio i ragazzini prendono a divertirsi con le bolle di sapone che si
producono come ovvio sviluppo della esigenza della bambina di pulire scarpe
delle quali talvolta va fiera, perché adatte all'impegno scolastico, ma più
spesso si vergogna; i suoi sentimenti vengono suggeriti proprio sfruttando le
situazioni che si dipanano da spunti anche scontati e che tuttavia sviluppano
situazioni cinematograficamente emozionanti in quanto giocate sulle sue
capacità espressive che preludono ad una cinepresa altrettanto sensibile nel
cogliere i dettagli che attraggono la bambina. Spesso le parentesi, che
avrebbero valore anche di film corti autonomi, sono segnalate pure da musiche stucchevoli,
adatte a certi sentimenti troppo buonisti, come la peraltro registicamente
geniale sequenza della scoperta da parte dei due fratelli della cecità del padre della compagna a cui
sono capitate in sorte le scarpe – durante la quale al pubblico appare chiaro
quale percorso abbiano seguito quegli oggetti del desiderio –, il montaggio è essenziale: riassume
con pochissime immagini il passaggio dalla decisione di pretendere la restituzione alla
compassione e propone una soggettiva dei due fratelli nascosti dietro un muro a
spiare la casa, seguito dallo sguardo d'intesa alla rivelazione della
menomazione (dunque rovesciando la ripresa precedente), ed infine la pietà e la
desistenza del ritorno sconcertati, con la ripresa di spalle ai due; tutto in
campo lunghissimo.
L'intera opera si avvale di alcune forme sintattiche
espressive per il loro uso nel duplice significato di cui sembrano caricarsi
nell’alternanza di applicazioni: le riprese dall’alto sono numerose e non solo
per l’incombere di un dovere morale, ma ad una prima analisi si nota l’adozione
della plongée per descrivere un consesso di persone, come le adunate della
scuola che in quel modo restituiscono un’immagine imponente di comunità,
abbastanza canonica; d’altro canto è possibile individuare la volontà di
testimoniare attraverso l’espediente sintattico una condizione di vita in cui
la storia narrata sia ancora plausibile: scegliere di riprendere la casa del
vicino (al quale la pietas spinge a portare una ciotola di zuppa, episodio che sottolinea la natura angelica di questi giovani) integralmente con una leggera ripresa dall’alto mentre gli attori assaporano la posizione orizzontale è anche indicazione di un atteggiamento
mentale riguardo alla prossemica domestica: all’opposto dell’apparente
oppressione che potrebbe derivare dallo schiacciamento al suolo di riprese dall’alto
si desume invece serenità, calma, naturalezza dall’atteggiamento dell’abitare.
In quelle case persino la
televisione restituisce un mondo plausibile, tanto che vi appaiono le scarpe
sotto forma di pubblicità e i lampi, imitati di lì a poco dalla realtà,
riallacciando il racconto centrale, poiché il temporale richiede un intervento
notturno per salvaguardare l’integrità delle scarpe residue. Attraverso quella sequenza il regista riesce a sottolineare un altro aspetto che gli sta a cuore: il realismo delle immagini delle quali non si dimentica il linguaggio che sottendono, ma proprio sfruttando l'esplicitazione dello stesso si tende ad aumentare la capacità di essere credibili delle situazioni rappresentate.
Pure il rallenti possiede
una doppia valenza: aumenta la partecipazione dello spettatore all’azione clou,
che è quella della gara – la competizione ha un ruolo importante nei film
iraniani –, conferendole una preminenza tale che permette di leggere il film
come calibrata preparazione di questo momento, tant’è vero che nella corsa il
momento di leggera debacle è sfruttato per riepilogare, in modo un po' scontato, i dialoghi
con Zahra; contemporaneamente la slow motion dilata le emozioni,
permettendo di sviscerarle meglio, di coglierle in tutte le sfaccettature e
intervenendo proprio sul movimento repentino della corsa getta una nuova luce
sulle altre innumerevoli corse che costellano il resto del film.
Ma la vera cifra
sintattica del film è il dettaglio, utilizzato fin dall’inizio: voci di mercato
avvolgono le callosità e la stoffa del grembiule da calzolaio, mentre il
movimento dell’ago intesse una storia di dignitosa povertà e delicati
sentimenti infantili, impegnati in un’impresa parzialmente realizzata;
l’insistenza su quell’inquadratura iniziale fa del dettaglio delle scarpe
un’allegoria del film, il cui valore è diverso dal passaggio narrativo in cui viene
descritto il gesto inavvertito del cieco che prende per errore la borsa delle
scarpe, dettaglio essenziale ma puramente funzionale, in cui si delimita lo
spazio dell’azione affinché non sfugga il passaggio narrativo. Un diverso uso del
dettaglio usato con profusione è quello classico per attrazione su oggetti di
scambio come le matite regalate alla sorellina per rabbonirla o le rassegne
sulle scarpe delle compagne di Zahra.
A suffragio dell’ipotesi che vede
come centrale l’uso del dettaglio si può ricordare che solo una bella
inserzione di pochi fotogrammi sulla bici con il portabagagli in evidenza
rivela la possibilità di un lieto fine, che finisce con risultare poco
interessante rispetto allo studio dello stato d’animo di Alì, meditabondo ai
bordi della fontana con i pesci, dove il film trova l’equilibrato e pacificato quadro
conclusivo.
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