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Shutter Island
Anno: 2010
Regista: Martin Scorsese;
Autore Recensione: Roberto Matteucci
Provenienza: USA;
Data inserimento nel database: 11-03-2010


“La pazzia è contaggiosa.” Nell’Isola della morte di Arnold Bocklin una barca con un personaggio enigmatico, forse la morte stessa, arriva su un’isola desolata con alte rocce e un bosco ricco di alberi immensi. E’ lo stesso inizio di Shutter Island, l’ultimo film di Martin Scorsese. Nel 1954 una nave sta attrancando su un’ isola solitaria, con rocce a strapiombo sul mare sempre mosso e un solo traghetto controllato dalla polizia che arriva saltuariamente. Non è possibile uscire dall’isola. Si tratta di un carcere criminale. Dalla nave sbarcano un agente federale, Teddy Daniels, Leonardo di Caprio, con un suo aiutante. Da qui parte una storia che si dipana su tanti filoni e su diversi piani temporali. Un film ricco di flash back che ci porta anche alla fine della seconda guerra mondiale, all’arrivo degli alleati al campo di concentramento di Dachau. E’ un film onirico, pieno di incubi, tempeste, pioggia incessante e vento fortissimo. E’ una introspettiva sulla malvagità dell’umanità. Si parte proprio da Dachau per finire ai tanti pazzi violenti che sono reclusi nel carcere, per passare allo stesso Teddy Daniels. In quegli anni gli Stati uniti sono sconvolti dalle indagini e dai sospetti del Maccartismo e dalla paura del comunismo, della fuga e delle delazioni. Ciò che avveniva negli Stati Uniti è la stessa pazzia che allegia nel carcere, che accomuna universalmente carcerati e carcerieri, non riusciamo a distinguere i folli dai sani, la pazzia ha contaggiato tutto e tutti. La società americana del tempo viene traslata nel carcere criminale. E’ un film sulla paura di diventare pazzi. La nostra è una società incerta, non riusciamo a distinguere esattamente il bene dal male, abbiamo un profondo disagio che nasce da dentro di noi e che facciamo fatica a manifestare. Ciò crea internamente a noi un mostro e crea un mostro per la stessa società. Non distinguiamo più chi siamo e forse non lo comprende neppure chi ci osserva. D’altronde la pazzia ha contaggiato tutti. Il film di Scorsese porta sullo schermo due grandi emozioni. Quello del prison movie. Il carcere è un luogo clastofobico per antonomasia. Sensazione che viene accentuata da un vecchio castello, da celle buie, da volti e corpi deformati dei carcerati, dai suoni e dalla frase senza senso, dal ciclone che ha colpito l’isola e dal profondo senso di solitudine e di distacco dal mondo. Inoltre il parossismo viene accentuato dallo spazio chiuso. L’isola è impenetrabile, non si può fuggire perché a nuoto ci si sfracellerebbe sulle rocce, c’è solo una nave e con un ciclone in atto non può raggiungerla. E’ un delitto in una stanza chiusa. Prigione e spazio chiuso vengono evidenziati dalla diffusione parsimoniosa della luce, accentuando con il buio degli posti chiusi il senso di follia. Scorsese ci diverte intrecciando i tanti elementi filmici, le tante passioni, i flash back, le varie dimensioni temporali e spaziali. Ci diverte giocando con la natura umana, esasperando l’eccesso della pazzia come lettura del mondo e della realtà. Soprattutto si diverte lasciandoci aperto il dubbio. Il dubbio sulla vita che anche essa ci potrebbe dare follia pura. Per farci entrare ancora in uno spazio più piccolo e ancora più soffocante alla fine Scorsese ci porta all’interno di un faro. E’ come un faro di Hopper. Solitario, isolato, dimenticato, separato dall’isola accentua ancora di più la nostra inadeguatezza e disabilità nei confronti della realtà.