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Invictus
Anno: 2009
Regista: Clint Eastwood;
Autore Recensione: Roberto Matteucci
Provenienza: USA;
Data inserimento nel database: 02-03-2010


“La riconciliazione inizia qui. La Nazione Arcobaleno inizia qui.” Nelson Mandela nel 1994 diventa Presidente del Sud Africa. Fu la fine del regime di apartheid che governò il paese per tanti anni. Il cambiamento non fu facile e Nelson Mandela ne era consapevole. Deve compiere un’azione forte e decisa e soprattutto antipopolare, ma che possa unire i presunti sconfitti ai vincitori. “Mi avete eletto come Vostro leader, ora fatevi guidare.” Per essere leader ci vuole il coraggio di scelte contro corrente, contro il pensiero prevalente. Decidere è un atto politico anche se può sembrare a prima vista un fatto simbolico: far diventare la squadra nazionale di rugby, amata solo dai bianchi ed odiata dai neri, la squadra di tutta una nazione, di qualsiasi colore., una squadra arcobaleno. Costruire un’immagine è compito di Mandela e del capitano della squadra Francois Pienaar. Clint Eastwood dopo averci raccontato la periferia di Highlane Park Michigan in Gran Torino ci accompagna in Sud Africa. Ci racconta anche qui di come sia difficile costruire una comunità multietnica. Popolazioni asiatica, nera e bianca fanno fatica ad addattarsi nel Michigan e solo il dramma finale può darci una speranza. La nazione del Sud Africa dopo anni di sofferenze per una violenta politica di apartheid cerca di unificare la popolazione nera con quella bianca. In Invictus Eastwood ci da un finale inverso rispetto a Gran Torino. Si parte sempre da una società divisa, economicamente e socialmente, violenze fra i vari gruppi. Alla fine arriva una speranza di accordo solo con un dramma sociale ed epico quale può essere un grande avvenimento sportivo. La gioia della vittoria per un attimo blocca la storia e la attualità. Bambini accattoni neri vengono abbracciati da poliziotti bianchi. Bianchi e neri sono in piazza e festeggiano con musica e birra. E’ facile intuire che la sbornia sarà totale e collettiva. Eastwood sa bene come raccontarci una storia e sa tenere fermo il timone anche con mare mosso. Nelle sue mani il filo conduttore non ha mai debolezze o tentenamenti. Pur utilizzando finali totalmente diversi in Gran Torino ed in Invictus riesce a darci emozioni, patimenti e soprattutto ci fa leggere dentro di noi senza nessuna retorica. Buoni e cattivi si uniscono. Bianchi e neri si accomunano, non c’è nessun moralismo sul fatto che fino ad un momento prima volevano uccidersi. Il moralismo, il perbenismo non fanno parte dei film di Eastwood. Lui ci racconta che il mondo è composto da belli e brutti, buoni o cattivi, ma non partecipa, non giudica. Sia il polacco Walt Kowalski sia Nelson Mandela sono dei rivoluzionari che desiderano che la tradizione e la storia non sia dimenticata ma neppure utilizzata per conservare uno status quo. Entrambi partecipano in prima persona nella rivoluzione della tradizione. Il Kowalski si fa uccidere passivamente (o si uccide?) mentre potrebbe essere lui a fare giustizia sommaria. Mandela osserva e partecipa emotivamente, magari scommettendo una cassa di vino. Anche lui potrebbe fare giustizia sommaria ma preferisce una soluzione soft che possa creare una parvenza di pace. I neri che uccidono Kowalski sono in Invictus rappresentati da Francois Piennar e dalla sua squadra che invece di uccidere Mandela insieme a lui vogliono fare un paese diverso, vogliono un cambiamento nel nome dei colori della tradizione. “Il paese sta cambiando e anche noi dovremmo”. Le scene finali della partita: i volti segnati, i lividi nel corpo, il sudore, i muscoli tirati, le urla della spinta, le mischie forsenatte, i colpi bassi, la rabbia e la voglia di vincere sono le armi che fanno liberare l’odio insito da anni dentro a delle generazioni segnate dal razzismo. La partita e l’omicio di Kowalski si assomigliano perché entrambe ci danno una speranza, la speranza di un’interazione fra popolazioni diverse. Eastwood conosce bene il senso di quel rito pagano che è un avvenimento sportivo. Sa bene che durante una partita le divisioni non esistono. Una partita è una cerimonia sociale e popolare irripetibile. Un ‘’li’’, un rito, una aggregazione per Confucio. Sono proprio le due ore del match che rendono la relazione dinamica tra persone, che possono interagire con chiunque. Poi se la speranza continuarà non lo sappiamo, ad Eastwood non gli interessa. A lui interessa il dramma, raccontarci il momento, l’attimo, una storia minuscola e particolare. Quello che è successo in Sud Africa forse è diverso dalle speranze nate con la partita, come probabilmente nel quartiere di Highland Park. I temi del film sono molti. Il rito della partita e del suo significato politico e sociale ho già detto. Il fascino di una partita di rugby. I giocatori sembrano essere cattivissimi e violenti ma i forti contrasti non nascondono malvagità e mancanza di senso sportivo. Alla fine di una partita le infermierie sono piene per una partita di calcio ma non per quelle di rugby, dove i giocattori rimediano solo lividi e contusioni. Affascinante è il contrasto che Mandela cerca di trovare alla famosa danza del Maori: Haka, che i giocatori della Nuova Zelanda officiano come un rito religioso prima della partita. Trova una soluzione per controbattere la danza con il fascino delle parole di una poesia: “I thank whatever gods may be / For my unconquerable soul. / I am the master of my fate / I am the captain of my soul.” Un inno alla volontà di ogni singola persona per essere artifice della propria vita. La poesia versus danza. Non è una guerra. E’ una sfida tra grandi guerrieri, tra gladiatori, tra samurai. La prigione di Mandela. Quella piccola cella era il mondo di Mandela per tanti anni e diventa poi il simbolo di una liberazione. E’ un ricordo che nessuno vuole dimenticare, ma non vuole essere un macigno che blocca una riconciliazione. Dalla prigione si passa al perdono. Mandela parla sempre di perdono come unica soluzione per liberarsi l’animo e sconfiggere il nemico di tanti anni. Abbracciare il vecchio nemico, lavorare insieme senza neppure avere un momento di rancore non è molto umano. Però è l’unica strada che ci può portare alla conclusione. Il perdono vive solo nel cuore delle persone. A volte ci costringere a fare ciò che non desideriamo, sicuramente non lo si deve vivere con moralismo, come se fossimo superiore altrimenti si perdonerebbe ma poi si cadrebbe nella vanità. Perdono senza vanità sembra impossibile ma è l’unico passo avanti che possiamo fare. Il film è bellissimo. Invictus non è la squadra di rugby del Sud Africa ma l’unico vero Invictus è Clint Eastwood. Avanza come una macchina da guerra, riesce a terminare un capolavoro dietro l’altro con un ritmo micidiale. Ci accompagna dentro viaggi dell’immagiazione e dell’emozione senza lasciarci un momento. Costruisce scene epiche, senza mai dimenticare il ritmo e la successione possente della trama. Tutto è preciso, tutto è esatto, nulla lasciato al caso. E’ difficile raccontare al cinema un avvenimento sportivo. Si rischia sempre di cadere nella retorica. In Invictus la macchina è dentro la mischia ed il sonoro è cupo e soffocante come la fatica dei giocatori. Le riprese dal basso ci portano nel cuore del problema, nelle difficoltà della vita, nelle forti differenze sociali. La scena iniziale del film ci racconta di un muro, di un filo spinato. Un bel campo da rugby circondato da eleganti residence dove i giocattori sono tutti i bianchi. in mezzo una strada. Dall’altra parte della strada una bidonville pietosa dove ragazzini neri, straccioni e sporchi giocano a calcio. Improvvisamente un corteo attraversa la strada. E’ il ritorno a casa di Nelson Mandela dopo tanti anni di prigionia. E’ come una mischia di rugby, da una parte dei neri e da una parte dei bianchi entrambi spingono, entrambi sono pieni di rabbia ed in mezzo c’è la palla che deve segnare la vittoria. Entrambi sono divise ma la vittoria deve essere Arcobaleno per segnare il cambiamento.