Hiroshima mon
amour. Alain
Resanis. 1959. FRANCIA-GIAPPONE.
Attori: Emmanuelle
Riva, Eiji Okada, Stella Dassas, Bernard Fresson, Pierre Barbaud
Durata: 91'
Hiroshima. Giappone. Due corpi si abbracciano e su loro
cade della cenere che poi diventa polvere dorata. La voce di un uomo ripete “Tu non hai visto niente a Hiroshima” e
una voce di donna risponde ricordando il disastro della bomba atomica. Il
dramma di quell’episodio è che tutto si è contaminato, che la storia si
ripeterà ancora una volta, e che la memoria si è trasformata in ricordo
senz’anima, per necessità, in ombra e marmo. Lei è un’attrice francese in
Giappone per realizzare un film sulla pace e lui è un architetto nipponico che
s’innamora subito del suo carattere così difficile e deciso, carico di moralità
dubbiosa. Lei rifiuta il fatto che il loro incontro possa avere un seguito e lo
fa andar via dalla sua stanza d’albergo ma l’architetto la raggiunge sul set
del film dove lei è impegnata e la invita a casa sua. Entrambi si scoprono
sposati, felici del proprio matrimonio, ma l’attrazione che c’è fra loro è più
forte di ogni legame. A letto lui le domanda di parlargli del suo passato in
Francia e lei gli racconta del suo primo amore a Nevers con un militare tedesco
durante la guerra, a causa del quale fu considerata pazza dalla sua famiglia e
fu rinchiusa in una cantina con i capelli tagliati. Il racconto prosegue in un
bar dove la donna incomincia a bere sempre di più per affrontare il suo
passato, ricordando anche quando l’uomo fu ucciso nel giorno della liberazione
del suo paese. Liberata dalla cantina, la donna aveva ripreso a gridare il nome
del suo uomo, ed era quindi stata rinchiusa una seconda volta sino a che i
genitori non l’avevano costretta a fuggire in bicicletta verso Parigi, dove lei
era arrivata il giorno in cui su Hiroshima veniva sganciata la bomba atomica,
quattordici anni prima. All’uscita dal locale l’attrice e l’architetto si
separano ancora, convinti che la prossima volta che s’incontreranno sarà solo a
causa della guerra. Tornata nel suo albergo, la donna sente il vuoto che la
circonda e così decide di tornare nel locale dove si era confessata, fuori dal
quale si siede in terra. La raggiunge l’architetto giapponese, che non riesce
ad abbandonarla, a fare a meno di lei. L’attrice prova allora a dimenticare, a
rimuovere Nevers e quell’amore per il militare tedesco, ammettendo che era
malata d’amore in gioventù. Scaccia ancora una volta il nuovo compagno e si
rifugia in un night club, il Casablanca. Qui viene abbordata da un altro
giapponese, davanti agli occhi dell’uomo che l’ha seguita, ma quando entrambi
fanno ritorno nella sua camera da letto, si riconoscono uno come Hiroshima e
l’altra come Never aux France. Lei ha rimosso il passato e adesso può tornare a
vivere, cosciente però che anche il nuovo amore sarà destinato ad essere
rimosso.
Delle pellicole dei “giovani turchi” che uscirono in sala
a cavallo tra gli Anni Cinquanta e Sessanta (quelle firmate cioè da Françoise
Truffaut, Claude Chabrol e Jean-Luc Godard), e che da subito divennero il
simbolo dell’appena teorizzata Nouvelle
vague, quella di Alain Resanis è sicuramente la più complessa e matura, presentata
lo stesso anno al Festival di Cannes (fuori concorso) e dove ottenne il premio
della critica. Sull’esile traccia di un amore impossibile destinato a vivere
nel conflitto interno della protagonista
(un’ottima e allucinata Emanuelle Riva, all’esordio con questa pellicola) il
regista infatti inserisce il più autorevole tema della memoria e delle
implicazioni storico-entimentali ad essa legata. Tutta la prima parte del film
infatti ha la natura documentaristica del cinegiornale, ma ha la forza di un
pugno allo stomaco, che non indugia davanti a nulla (le immagini post-atomiche
delle vittime) ma che anzi affonda con singolare sensibilità nella disperazione
di un gesto che ha posto fine alla guerra (così è percepito il significato in
Europa) ma che in realtà ne è il ricordo più vivo e significativo (così è
percepito il significato in Giappone). Sin da questo primo lavoro si evince
un’altra caratteristica del cinema di Resanis, la sua verbosità matura sorretta
da un uso dell’immagine rigoroso, pulito, minimale. L’insieme di questi
elementi è alla base dell’idea politica che il regista ha del cinema, perché
come fa dire all’attrice francese “guardando
bene , credo che s’impari”. Sulla realizzazione del film, Resnais mostra
anche la matura capacità di saper ben miscelare gli elementi a disposizione,
mischiando documentario e fiction (emblematico è il corteo), accettazione e
rifiuto, passato e presente, lavorando cioè sulla regola dei contrasti e delle
opposizioni. Resanis ha bisogno di dire qualcosa nei suoi film e ciò è ancor
più evidente nelle inquadrature scelte per il corteo della memoria, dove egli
indugia sui cartelli e meno sugli aspetti folcloristici del passaggio in strada
(in realtà ricostruito dal regista che sta girando il film sulla pace) dei
figli di quel disastro che la guerra nel Pacifico ha rappresentato. Come si è
detto fiction e documentario si confondono, ed è il sentimento che attrae i due
protagonisti ad emergere, mentre entrambi rimangono invischiati in un processo
a ritroso (flashback in Francia della gioventù di lei) che serve per cancellare
le colpe, dopo però averne capito le cause ed il dolore che esse hanno
accresciuto. Da questo momento in poi il regista si caratterizzerà soprattutto
nella scelta di soggetti dalle forti emozioni, come solo l’amour fou può rappresentare, e che ben si sintetizza nel folle
incontro tra i due protagonisti di questa pellicola: “tu mi uccidi, tu mi fai del bene”. Larghissimo uso di carrelli
lenti si alterna alla staticità di immagini solitarie (quelle dell’albergo per
esempio) in una storia che sfrutta tutte le capacità e possibilità dei dialoghi
e del montaggio, pulitissimo e puntiglioso, grazie anche al lungo passato del
regista come autore di documentari e montatore appunto (vedasi l’alternanza tra
i due paesi, Nevers e Hiroshima, e la loro simbiotica unione finale nel
non-luogo della memoria attraverso la quale la donna prosegue il proprio
cammino). La disillusione sentimentale del regista è dunque un assioma di amore
infelice e impossibile, che ritratta sempre, sebbene sia mosso da una forza
vitale indicibile, indescrivibile, e che altro non è che l’enigmaticità delle
confidenze, la tortuosità dell’esistenza stessa, e soprattutto la verità della
carne e della passione, prima della più autorevole citazione cinematografica
(cui tutti i registi della nouvelle vague
fecero riferimento all’inizio delle loro carriere). Hiroshima mon amour è comunque un film crudele, e non solo per le
durissime sequenze iniziali, ma anche perché lascia intendere che l’amore
provato dalla donna per la sua nuova passione, quella per l’architetto
giapponese, sia coscientemente messo alla pari di un altro (quello del tedesco)
dimenticato, e soprattutto nel fatto che il loro incontro, così passionale in
questa parentesi a Hiroshima, sarà probabilmente riconsegnato ad un nuovo
conflitto, alla guerra. Elaborato su un testo di Marguerite Duras (che dopo
altre esperienze come sceneggiatrice passò dietro la macchina da presa), il
film venne distribuito in Giappone nel 1961 con il titolo Un’avventura in 24 ore, e ne è stato fatto un remake con H-story (2001) di Nobuhiro Suwa. Alle
riprese del film originale invece, contribuirono due diversi operatori alla
macchina da presa, Takahashi Michio per quelle giapponesi (più luminose) e
Sacha Vierny per quelle francesi, aumentando così l’effetto del contrasto,
elemento sul quale è costruita l’intera storia (così come il contrasto tra
monologo e dialogo, documentario e storia, singolo e massa, amore e morte). È
un film che funziona, come una macchina
storica [i]. Le musiche furono dirette
da Georges Delerue, già direttore nel precedente film (esordio in
lungometraggio) Notte e nebbia (1955)
del regista francese.
Bucci Mario
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