NearDark - Database di recensioni

NearDark - Database di recensioni

Africa

Godard Tracker


Tutte le
Rubriche

Chi siamo


NearDark
database di recensioni
Parole chiave:

Per ricercare nel database di NearDark, scrivete nel campo qui sopra una stringa di un titolo, di un autore, un paese di provenienza (in italiano; Gran Bretagna = UK, Stati Uniti = USA), un anno di produzione e premete il pulsante di invio.
È possibile accedere direttamente agli articoli più recenti, alle recensioni ipertestuali e alle schede sugli autori, per il momento escluse dal database. Per gli utenti Macintosh, è possibile anche scaricare un plug-in per Sherlock.
Visitate anche la sezione dedicata all'Africa!


Hiroshima mon amour
Anno: 1959
Regista: Alain Resnais;
Autore Recensione: Mario Bucci
Provenienza: Francia; Giappone;
Data inserimento nel database: 22-06-2006


La grande guerra

Hiroshima mon amour. Alain Resanis. 1959. FRANCIA-GIAPPONE.

Attori: Emmanuelle Riva, Eiji Okada, Stella Dassas, Bernard Fresson, Pierre Barbaud

Durata: 91'

 

 

Hiroshima. Giappone. Due corpi si abbracciano e su loro cade della cenere che poi diventa polvere dorata. La voce di un uomo ripete “Tu non hai visto niente a Hiroshima” e una voce di donna risponde ricordando il disastro della bomba atomica. Il dramma di quell’episodio è che tutto si è contaminato, che la storia si ripeterà ancora una volta, e che la memoria si è trasformata in ricordo senz’anima, per necessità, in ombra e marmo. Lei è un’attrice francese in Giappone per realizzare un film sulla pace e lui è un architetto nipponico che s’innamora subito del suo carattere così difficile e deciso, carico di moralità dubbiosa. Lei rifiuta il fatto che il loro incontro possa avere un seguito e lo fa andar via dalla sua stanza d’albergo ma l’architetto la raggiunge sul set del film dove lei è impegnata e la invita a casa sua. Entrambi si scoprono sposati, felici del proprio matrimonio, ma l’attrazione che c’è fra loro è più forte di ogni legame. A letto lui le domanda di parlargli del suo passato in Francia e lei gli racconta del suo primo amore a Nevers con un militare tedesco durante la guerra, a causa del quale fu considerata pazza dalla sua famiglia e fu rinchiusa in una cantina con i capelli tagliati. Il racconto prosegue in un bar dove la donna incomincia a bere sempre di più per affrontare il suo passato, ricordando anche quando l’uomo fu ucciso nel giorno della liberazione del suo paese. Liberata dalla cantina, la donna aveva ripreso a gridare il nome del suo uomo, ed era quindi stata rinchiusa una seconda volta sino a che i genitori non l’avevano costretta a fuggire in bicicletta verso Parigi, dove lei era arrivata il giorno in cui su Hiroshima veniva sganciata la bomba atomica, quattordici anni prima. All’uscita dal locale l’attrice e l’architetto si separano ancora, convinti che la prossima volta che s’incontreranno sarà solo a causa della guerra. Tornata nel suo albergo, la donna sente il vuoto che la circonda e così decide di tornare nel locale dove si era confessata, fuori dal quale si siede in terra. La raggiunge l’architetto giapponese, che non riesce ad abbandonarla, a fare a meno di lei. L’attrice prova allora a dimenticare, a rimuovere Nevers e quell’amore per il militare tedesco, ammettendo che era malata d’amore in gioventù. Scaccia ancora una volta il nuovo compagno e si rifugia in un night club, il Casablanca. Qui viene abbordata da un altro giapponese, davanti agli occhi dell’uomo che l’ha seguita, ma quando entrambi fanno ritorno nella sua camera da letto, si riconoscono uno come Hiroshima e l’altra come Never aux France. Lei ha rimosso il passato e adesso può tornare a vivere, cosciente però che anche il nuovo amore sarà destinato ad essere rimosso.

Delle pellicole dei “giovani turchi” che uscirono in sala a cavallo tra gli Anni Cinquanta e Sessanta (quelle firmate cioè da Françoise Truffaut, Claude Chabrol e Jean-Luc Godard), e che da subito divennero il simbolo dell’appena teorizzata Nouvelle vague, quella di Alain Resanis è sicuramente la più complessa e matura, presentata lo stesso anno al Festival di Cannes (fuori concorso) e dove ottenne il premio della critica. Sull’esile traccia di un amore impossibile destinato a vivere nel conflitto interno della  protagonista (un’ottima e allucinata Emanuelle Riva, all’esordio con questa pellicola) il regista infatti inserisce il più autorevole tema della memoria e delle implicazioni storico-entimentali ad essa legata. Tutta la prima parte del film infatti ha la natura documentaristica del cinegiornale, ma ha la forza di un pugno allo stomaco, che non indugia davanti a nulla (le immagini post-atomiche delle vittime) ma che anzi affonda con singolare sensibilità nella disperazione di un gesto che ha posto fine alla guerra (così è percepito il significato in Europa) ma che in realtà ne è il ricordo più vivo e significativo (così è percepito il significato in Giappone). Sin da questo primo lavoro si evince un’altra caratteristica del cinema di Resanis, la sua verbosità matura sorretta da un uso dell’immagine rigoroso, pulito, minimale. L’insieme di questi elementi è alla base dell’idea politica che il regista ha del cinema, perché come fa dire all’attrice francese “guardando bene , credo che s’impari”. Sulla realizzazione del film, Resnais mostra anche la matura capacità di saper ben miscelare gli elementi a disposizione, mischiando documentario e fiction (emblematico è il corteo), accettazione e rifiuto, passato e presente, lavorando cioè sulla regola dei contrasti e delle opposizioni. Resanis ha bisogno di dire qualcosa nei suoi film e ciò è ancor più evidente nelle inquadrature scelte per il corteo della memoria, dove egli indugia sui cartelli e meno sugli aspetti folcloristici del passaggio in strada (in realtà ricostruito dal regista che sta girando il film sulla pace) dei figli di quel disastro che la guerra nel Pacifico ha rappresentato. Come si è detto fiction e documentario si confondono, ed è il sentimento che attrae i due protagonisti ad emergere, mentre entrambi rimangono invischiati in un processo a ritroso (flashback in Francia della gioventù di lei) che serve per cancellare le colpe, dopo però averne capito le cause ed il dolore che esse hanno accresciuto. Da questo momento in poi il regista si caratterizzerà soprattutto nella scelta di soggetti dalle forti emozioni, come solo l’amour fou può rappresentare, e che ben si sintetizza nel folle incontro tra i due protagonisti di questa pellicola: “tu mi uccidi, tu mi fai del bene”. Larghissimo uso di carrelli lenti si alterna alla staticità di immagini solitarie (quelle dell’albergo per esempio) in una storia che sfrutta tutte le capacità e possibilità dei dialoghi e del montaggio, pulitissimo e puntiglioso, grazie anche al lungo passato del regista come autore di documentari e montatore appunto (vedasi l’alternanza tra i due paesi, Nevers e Hiroshima, e la loro simbiotica unione finale nel non-luogo della memoria attraverso la quale la donna prosegue il proprio cammino). La disillusione sentimentale del regista è dunque un assioma di amore infelice e impossibile, che ritratta sempre, sebbene sia mosso da una forza vitale indicibile, indescrivibile, e che altro non è che l’enigmaticità delle confidenze, la tortuosità dell’esistenza stessa, e soprattutto la verità della carne e della passione, prima della più autorevole citazione cinematografica (cui tutti i registi della nouvelle vague fecero riferimento all’inizio delle loro carriere). Hiroshima mon amour è comunque un film crudele, e non solo per le durissime sequenze iniziali, ma anche perché lascia intendere che l’amore provato dalla donna per la sua nuova passione, quella per l’architetto giapponese, sia coscientemente messo alla pari di un altro (quello del tedesco) dimenticato, e soprattutto nel fatto che il loro incontro, così passionale in questa parentesi a Hiroshima, sarà probabilmente riconsegnato ad un nuovo conflitto, alla guerra. Elaborato su un testo di Marguerite Duras (che dopo altre esperienze come sceneggiatrice passò dietro la macchina da presa), il film venne distribuito in Giappone nel 1961 con il titolo Un’avventura in 24 ore, e ne è stato fatto un remake con H-story (2001) di Nobuhiro Suwa. Alle riprese del film originale invece, contribuirono due diversi operatori alla macchina da presa, Takahashi Michio per quelle giapponesi (più luminose) e Sacha Vierny per quelle francesi, aumentando così l’effetto del contrasto, elemento sul quale è costruita l’intera storia (così come il contrasto tra monologo e dialogo, documentario e storia, singolo e massa, amore e morte). È un film che funziona, come una macchina storica [i]. Le musiche furono dirette da Georges Delerue, già direttore nel precedente film (esordio in lungometraggio) Notte e nebbia (1955) del regista francese.

   

 

Bucci Mario

        [email protected]



[i] Enrico Ghezzi. Paura e desiderio. Bompiani. Pg. 48