La
classe operaia va in paradiso. Elio Petri. 1970. ITALIA.
Attori: Gian Maria Volonté, Mariangela
Melato, Salvo Randone, Mietta Albertini, Gino Pernice
Durata: 125’
Torino. Suona la sveglia e l’operaio trentenne Ludovico
Massa si alza per andare in fabbrica. È un metalmeccanico divorziato che
convive con una parrucchiera, Midia, e suo figlio. La mattina, ad attenderli ai
cancelli c’è un movimento studentesco che vorrebbe far aprire gli occhi agli
operai sulle loro condizioni di lavoro, ma soprattutto sul contratto di
produzione, a cottimo. In fabbrica Ludovico, detto Lulù, è il miglior operaio,
e viene spesso utilizzato dall’amministrazione per dettare i tempi anche su
altre macchine, rischiando così di inimicarsi gli altri operai, alcuni dei
quali iscritti al sindacato. Vengono assunti due giovani operai meridionali, ai
quali Lulù insegna il suo metodo: pensare al culo di una collega, l’Adalgisa,
ogni volta che forgia un pezzo. A casa invece la situazione non è delle
migliori perché la sera Lulù non riesce a soddisfare le voglie della sua
compagna. Intanto fuori dai cancelli aumenta il numero di dimostranti ed in
fabbrica gli altri operai tentano di convincere Ludovico a cambiare
atteggiamento ed a rendersi meno schiavo del padrone e dei ritmi di produzione.
Ludovico rifiuta di scendere a compromesso fino a che non perde un dito su una
macchina. Gli operai dichiarano allora lo sciopero. Ludovico rimane segnato
dall’episodio. Torna a casa della sua ex moglie, ma viene rifiutato e così, al
limite di un esaurimento nervoso, va a trovare il Militina, un ex operaio a cui
avevano ceduto i nervi ed al quale chiede, in manicomio, come evitare la stessa
cosa. In fabbrica, mentre i sindacati cercano un dialogo fra le diverse
frazioni, Ludovico torna a fare tempi di produzione come gli altri, perché ha
perso la sua natura stacanovista. Perdendo la pazienza, viene sottoposto ad un
controllo psicologico ed una volta fuori dalla fabbrica, viene a scontro con
gli studenti, i quali però gli insinuano il dubbio se sia il caso di continuare
quella vita. Ad una riunione generale di tutti gli oprai, Ludovico decide di
schierarsi nella frangia più estremista, di coloro che abbandonano il lavoro
definitivamente. Riesce ad avere un rapporto sessuale con la Adalgisa, ma questa ci rimane
male per la mancanza di tatto da parte sua. Davanti ai cancelli la calca è
sempre più grossa e ci scappano anche alcuni tafferugli. A sera gli studenti si
rifugiano tutti a casa sua ma Midia, che non è affatto d’accordo, lascia la
casa portandosi dietro il figlio. Gli studenti abbandonano l’appartamento poco
dopo credendo che Midia li vada a denunciare alla polizia. Il giorno dopo
Ludovico si trova la strada verso la fabbrica sbarrata: è stato licenziato,
anche se i compagni hanno comunque deciso di abbracciare la sua causa. Va a
trovare i ragazzi dell’università ma arriva a scontro anche con loro, e decide
di tornare a trovare il suo amico in manicomio. È in pieno collasso di nervi e
si abbandona a se stesso in casa, dove incomincia a dare un valore ad ogni
oggetto acquistato, ed in rapporto alle ore di lavoro. Midia ritorna a casa con
il figlio e qualche giorno dopo un rappresentante del sindacato lo informa che
hanno risolto la lotta: lui è stato riassunto e la produzione è passata dal
cottimo alla catena di montaggio. Ludovico, tornato al proprio lavoro, racconta
di un sogno fatto al di qua di un muro che aveva cercato di abbattere, oltre il
quale c’è il paradiso degli operai. Era lo stesso sogno che faceva il suo amico
in manicomio.
Non c’è dubbio che assieme ad il precedente Indagine su
un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1971) sia questo uno dei film
più riusciti della coppia Petri/Volontè. Dopo aver smascherato le
contraddizioni del potere, insite negli apparati burocratici della giustizia,
Petri riesce ancora una volta a fotografare l’Italia che ha sotto gli occhi
attraverso un altro squarcio sulla società, quello che apre al mondo degli
operai, delle lotte sindacali, della vita di fabbrica, ed alle contraddizioni
di un movimento anticapitalista che, perdendo qualche pezzo (il simbolico
taglio del dito di Lulù) continua il proprio percorso lontano dal paradiso. È
infatti il sogno finale, raccontato durante il proprio utilizzo in una catena
di montaggio, che rende vano il tema del paradiso per la classe operaia,
trattandosi appunto di un sogno all’interno di un ambiente diabolico, come
quello della fabbrica. Da qualcuno questo film è stato considerato come il
primo lavoro interamente italiano che è entrato nelle fabbriche, raccontandone,
sebbene con qualche eccesso caricaturale, la condizioni di chi vi era coinvolto
[i]. A
dar voce a questo mondo è la figura di Lulù, operaio da quando aveva l’età di
quindici anni, già intossicato due volte, ma fiero anche elemento della
macchina del cottimo il quale, presa consapevolezza di un’altra strada sceglie
di rinunciare a qualsiasi compromesso, rischiando (e rimanendo vittima) di un
vero esaurimento nervoso, il vero effetto dell’alienazione industriale rivelata
dalle teorie marxiste, alle quali il regista aggiunge lo stretto legame con il
sesso (così come non aveva rinunciato ad accostare sesso e potere nel
precedente lavoro). L’interpretazione di Gian Maria Volontè è una di quelle che
rimane nell’immaginario collettivo non solo dei cinefili, e non solo per quel
viso sporco di chi vive la fabbrica fino ad identificarsi con essa (e con la
sua caricatura), ma per quell’accento barbaro, quella postura aggressiva, che
lo ha trasformato da stacanovista a crumiro e poi, da operaio fedele a
rivoluzionario. A dispetto delle pesanti critiche mosse contro proprio dagli
ambienti di sinistra, il film ottenne gran successo con la Palma d’oro al Festival di
Cannes, in ex aequo con il film Il caso
Mattei (1971) di Francesco Rosi, anche questo un film di denuncia.
Bucci Mario
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