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I sette samurai - Shichi-nin no Samurai
Anno: 1954
Regista: Akira Kurosawa;
Autore Recensione: Mario Bucci
Provenienza: Giappone;
Data inserimento nel database: 22-06-2006


La grande guerra

I sette samurai. Akira Kurosawa. 1954. GIAPPONE.

Attori: Takashi Shimura, Toshiro Mifune, Yoshio Inaba, Seiji Miyaguchi, Minoru Chiaki, Daisuke Kato, Ko Kimura, Kamatari Fujiwara, Kuninori Kodo, Bokuzen Hidari, Keiko Tsushima

Durata: 200’

Titolo originale: Shichi-nin no Samurai

 

 

Giappone. Seconda metà del 1500, periodo Sengoku. Il paese è devastato dalla guerra civile e i villaggi dei contadini sono oggetto delle scorrerie di folti gruppi di briganti. Un villaggio in particolare, prima del prossimo raccolto, e dopo l’ennesimo saccheggio, decide, su consiglio dell’anziano di andare alla ricerca di samurai impoveriti da assoldare in difesa del villaggio. Povertà e fame intanto incattiviscono i rapporti tra gli uomini e un giorno un folle sequestra il neonato di una coppia e si barrica in una casa. Viene chiamato Kambei Shinaba, un samurai che, fintosi prete, lo uccide liberando il neonato. Durante il tragitto di ritorno verso la città, gli uomini del villaggio lo seguono chiedendogli di prendersi carico della ricerca di altri samurai da assoldare in difesa del villaggio. È un progetto a perdere, perché non hanno da offrire loro altro che un po’ di riso ed un alloggio, ma Kambei accetta ugualmente. In città trova altri quattro samurai tra i quali l’abile maestro di spada Kyuzo, il simpatico Heyachi, Gorobei Katayama e il vecchio amico Sichiroji, ai quali si aggiunge il giovane Katsushiro. Vorrebbe far parte del loro gruppo anche l’ubriaco, ladro e millantatore Kikuchiyo, ma questi lo deridono sulla via verso il villaggio. Manzo, padre della giovane Shino, sicuro che sua figlia possa diventare preda dei samurai, le taglia i capelli e la veste da uomo, fomentando tensione fra i contadini. Al loro arrivo infatti, i samurai non trovano nessuno ad accoglierli e Kikuchiyo, dando un falso allarme d’attacco li fa uscire tutti allo scoperto, guadagnandosi anche i favori dei samurai che decidono allora di accoglierlo. Il gruppo si ferma a sette e Kambei ne diventa il capo. Vengono studiate strategie per bloccare i diversi accessi al villaggio e vengono preparati i contadini a sostenere una difesa armata. Katsushiro fa la conoscenza di Shino nella foresta mentre nel villaggio Kikuchiyo scopre vecchie armature ed armi di samurai uccisi dai contadini tanto tempo prima. Si scoprono le radici contadine di Kikuchiyo che rivendica la rabbia della sua casta come risultato del comportamento dei samurai nel tempo. Kyuzo, l’abile maestro di spada, scopre Katsushiro portare da mangiare a Shino ed a cena decide anche lui di far avanzare del riso per qualcuno: viene offerta la cena ad un’anziana signora cui i banditi hanno ucciso il figlio e che in realtà non vede l’ora di morire per lasciare la miseria in cui vive. Il giorno dopo i samurai distribuiscono il riso messo da parte per loro a tutti i bambini del villaggio e poi risolvono la questione delle tre case oltre il fiume: saranno sacrificate per chiudere il resto del villaggio facendo ingrossare proprio il fiume che la divide. Trascorrono i giorni nei quali i contadini trebbiano il raccolto e i samurai possono conoscere meglio anche quelli del posto. Finito il raccolto, i contadini si rilassano credendo che ormai i banditi abbiano rinunciato all’attacco ma Shino e Katsushiro trovano nel bosco tre cavalli legati e scoprono tre spie mandate in avanscoperta. I samurai decidono di non farsi vedere per trarli in inganno ma poiché Kikuchiyo si fa scoprire sono costretti ad ucciderne due e prenderne uno per sapere dove sono nascosti gli altri. I contadini, dopo che questi ha confessato, vorrebbe linciarlo, ma i samurai cercano di risparmiarlo sino a che a volersi vendicare non è l’anziana del posto che aveva perso il figlio, e Kambei deve lasciarglielo fare. Tre samurai vanno, con il contadino Rikici, al Picco dell’aquila dove molti altri banditi sono nascosti e danno fuoco all’abitazione all’interno della quale si sono addormentati. Gli uomini sono costretti ad uscire correndo e loro li uccidono appena fuori dalla casa in fiamme. Tra questi c’è anche la moglie rapita di Rikici che però rimane tra le fiamme. Rikici vorrebbe lanciarsi per raggiungerla ed Heyachi, per evitare che questo accada, viene sparato dai banditi e muore. Sono celebrati i funerali e poco dopo incomincia l’assedio dei briganti al villaggio. Vengono incendiate le case di là del fiume, ma nel mulino è rimasta una famiglia che non voleva andar via. Kikuchiyo corre in loro aiuto, ma riesce a salvare solo un neonato, ricordando così che anche a lui era accaduta la stessa cosa. L’assedio si prolunga per due giorni e il paese riesce a resistere bene. Con uno stratagemma, facendone entrare due per volta, i contadini ed i samurai uccidono diversi banditi dimezzandone le forze. L’atteggiamento spesso sconsiderato di Kikuchiyo fa però alcune vittime tra loro. La seconda notte di battaglia gli uomini provano a riposarsi e Manzo scopre Katsushiro con sua figlia. L’aggredisce e la umilia davanti a tutti, ma alcuni samurai intervengono per difendere il gesto dei ragazzi. Incomincia a diluviare e i samurai caricano moralmente tutti per lo scontro finale. Decidono infatti di farli entrare tutti insieme e di aggredirli dentro il villaggio. Il capo dei briganti riesce solo a barricarsi in un fienile con le donne e da li uccide a colpi di fucile il maestro di spada e Kikuchiyo. Si salvano in tre, Kambei, Sichiroji e Katsushiro. La vita nel villaggio riprende normalmente e le donne tornano a lavorare tranquillamente i campi, cantando. Katsushiro vede passare Shino che però fa finta di non conoscerlo e va al campo di lavoro. Kambei ammette che hanno vinto i contadini. 

Quattordicesima pellicola per il regista che prenderà il soprannome de “l’imperatore”, ed epopea storica che mette in campo, con il pretesto del paese da difendere, non solo la storia del Giappone e quella in particolar modo legata alla figura del samurai, ma anche la lotta di classe, punto fondamentale che, infatti, chiude la vicenda raccontata. Quella della difesa del paese di contadini infatti è solo la base narrativa sulla quale si poggia la teoria del conflitto utilizzata dal regista per legare vicende e rapporti umani tra i personaggi: spesso infatti è il contatto tra questi due poli, quello contadino e quello aristocratico/mercenario dei samurai, che fa emergere le contraddizioni dell’antica società giapponese e che pone in essa non marginali critiche all’atteggiamento sia dei primi che dei secondi. Se da un lato infatti (nelle parole di Kikuchiyo) c’è la colpa dei samurai per la condizione di miseria nella quale versa il popolo dei contadini, dall’altro lato (come recita, infatti, la scena finale) c’è anche un orgoglio contadino che permette a questi ultimi di sopravvivere nonostante tutto. Il ritrovamento d’armature appartenute a samurai uccisi, dimostra infatti sia il passato che questi nascondono che la furbizia di un popolo che non è destinato a sottomettersi, né al nemico invasore (rappresentato dai briganti) né alla storia (che i samurai rappresentano). In maniera più romantica invece, è questo il secondo aspetto più importante del film, vengono portati sullo schermo i dettami, le regole del comportamento della casta dei samurai, anche in questo caso con difetti (pochi) e pregi (molti). La figura di Kikuchiyo anche in questo caso è ancora una volta emblematica: egli infatti, figlio di contadini che si riconcilia con il proprio passato dopo aver salvato il neonato dal mulino in fiamme (come era accaduto a lui durante l’infanzia) è caratterizzato da un coraggio ambiguo (spesso folle) che per questo motivo, privo di ordine e mentalità rigida e conforme alla casta alla quale vorrebbe appartenere, spesso mette in pericolo sia i suoi colleghi che i contadini stessi, cioè l’impegno che assieme agli uomini con i quali sceglie di combattere decide di assumersi. Da un punto di vista tecnico, c’è una sovrabbondanza d’inquadrature (vedasi i primi tre minuti per esempio) spesso montate tra loro con stacco in asse, un largo uso di carrelli, ma soprattutto un modo di comporre immagini corali caratterizzate da campi lunghi e lunghissimi (le immagini del villaggio dall’alto) che resero celebre il modo di lavorare del regista nipponico. Questa caratteristica soprattutto deriva da un atteggiamento tipico della cultura giapponese, che comprende l’avvicinamento verso l’individuo attraverso graduali passi che partono dal muro di cinta, e si avvicinano man mano verso il singolo cittadino, al contrario invece del modello “occidentale” che introduce direttamente il protagonista e poi ne scopre il contesto. Il procedimento dunque non parte dall’incognita che si determina poi man mano attraverso tutti i dettagli, ma da dall’insieme dei dettagli tra i quali s’insinua l’incognita. In questo caso specifico dunque l’incognita non è “come difenderanno il villaggio dall’assedio?” ma “cosa vuol dire la cultura samurai oggi?” [i]. Meno legato alla costruzione dell’immagine però e più interessato alla costruzione della storia, il regista non rinuncia ad utilizzare la maggior parte degli strumenti a disposizione per mettere in scena appunto un’epopea lunga oltre tre ore nella versione integrale e ridotta a 160 minuti per lo stesso mercato giapponese ed a 130 per quello europeo (rimane questo però il film più lungo realizzato da Akira Kurosawa). Nonostante la lunghezza del lavoro, il film scorre velocemente soprattutto perché diviso in corposi blocchi, con un prologo (condizione storica), la ricerca dei samurai, l’incontro tra le due caste, l’organizzazione teorica e quella pratica della difesa del piccolo villaggio di contadini, e l’epilogo finale, in questo caso specifico capace di ribaltare la condizione d’apertura dove si era creduto che i contadini non potessero fare a meno dei samurai e che invece mette in chiaro un atteggiamento che presto porterà ad un cambiamento storico di questa tradizione (il saggio Kambei che riconosce che alla fine sono proprio loro ad aver vinto). È un affresco incredibile dunque, che per stile ricorda il genere western (non solo nella scelta delle inquadrature, ma anche nella costruzione dei duelli) ed infatti il regista Sergio Leone s’ispirerà molto al regista giapponese (ma non solo ovviamente) per la costruzione di alcuni suoi film o dei momenti di tensione delle sue pellicole più riuscite (vedasi il montaggio del duello in città tra i due samurai armati di spada). Poiché si tratta di una storia che si sviluppa soprattutto nel rapporto tra i protagonisti e meno nella soluzione del conflitto tra predoni e contadini (che si sarebbe potuto risolvere con una lunghezza più classica) il montaggio temporale è spesso affidato a tendine che passano da destra a sinistra e che quindi servono solo a creare angoli, parentesi narrative, all’interno di una storia che ha un suo corpo solo nell’insieme dei caratteri che partecipano dall’inizio alla fine. Il carattere e la morale dei samurai è affidata a sette persone diverse, ognuna caratterizzata da un proprio modo di stare al mondo (c’è il pessimista e disincantato Kambei, ma anche l’ottimista, lo spadaccino, il folle) utilizzando l’espediente della selezione per definirne da subito i tratti esenziali da poi mettere in relazione agli altri. Da questo punto di vista la sceneggiatura sfrutta tutte le potenzialità dei sette caratteri differenti (ai quali vanno aggiunti i corrispettivi tra i contadini) che messi in relazione tra loro creano una serie di dinamiche importanti per lo sviluppo non solo della storia, ma anche dei caratteri stessi dei personaggi (proprio grazie alla teoria del conflitto, in questa pellicola come si è detto, utilizzati al meglio). Sulle capacità del regista, mai una sola virgola da appuntare, anche perché come fa dire i suoi personaggi, si tratta di una storia di difesa, non d’attacco, e perché difendere è più difficile che attaccare (ed in questa affermazione c’è la sfida del regista a costruire un’epopea epica sulla difesa e non sull’attacco). Si diceva del conflitto di classe però, e non possono non vedersi dei segnali marxisti in questo lavoro, dove i samurai (senza terra e senza padrone) si mettono non solo a disposizione dei contadini (ricucendo e saldando un rapporto logoro da tempo) ma ne cercano anche una riunificazione. È nella fondamentale regola di difesa (sono passati solo dieci anni dalla sconfitta subita dal Giappone durante la seconda guerra mondiale) che infatti s’inserisce un altro aspetto politico del film, quando Kambei detta le regole che vorranno bruciate le case oltre il fiume perché “chi difende gli altri difende se stresso, ma chi difende se stesso si distrugge” (il sacrificio, uno degli elementi caratteristici della natura nipponica). Sopra tutti le interpretazioni di Takashi Shimura (con quel movimento della mano sulla testa e il suo carattere quieto e disilluso) e naturalmente Toshiro Mifune, attore feticcio del regista, e in questo film sempre sopra le righe, come il diabolico brigante di Rashomon (1950). Tra le sequenze più forti, oltre a quelle delle battaglie, anche quelle che portano le donne in campo, come la vendetta consumata dall’anziana signora o l’aggressione delle contadine armate di zappe e falci. Anche il blocco narrativo concentrato sulla battaglia gioca sull’accrescimento emotivo, con la prima vittima che è anche inizio della battaglia (durante il suo funerale parte l’assalto dei briganti) e che sfrutta l’elemento della pioggia per un crescendo che culminerà solo con il pacifico (e solare) ritorno alla vita naturale. A proposito della teoria dei contrasti, vedasi la scena in cui i contadini sono al riparo dalla pioggia e tre samurai si parlano invece sotto una fitta caduta d’acqua: è con espedienti come questo che il regista fa emergere i caratteri dei protagonisti, i diversi approcci e le diverse morali, mantenendo sempre in una posizione superiore però i samurai, sebbene alla fine i vincitori siano i contadini. I samurai come Kambei sono comunque un romantico ricordo di moralità alta che la storia del paese ha rimosso e cancellato (il cimitero), e la frase finale però (come al solito il regista condensa tutto in poche battute significative) ancora una volta mostra e condensa tutta la poetica del regista che assieme alla terra (ed alla sua natura) è sinonimo di solidarietà e riappacificazione di caste. Sono i contadini infatti (e la terra dunque) il simbolo della continuità della vita alla quale si votano sette samurai senza terra (e che quindi cercano a loro volta di riconciliarsi con questa) alcuni dei quali ne muoiono ed altri (i superstiti) ne comprendono la vittoria. Ottima la fotografia di Asaichi Nakai, il film ottenne il Leone d’argento alla Mostra del cinema di Venezia ed il premio Oscar come miglior film straniero, dando così la possibilità al regista di essere finalmente riconosciuto come uno dei maestri indiscussi del cinema mondiale. Nella scena di Kambei che travestito da santone uccide il sequestratore e nel duello in città, il regista usa il rallenty per esaltare la drammaticità della morte nei duelli, espediente che verrà a sua volta estetizzato ed esaltato dal regista Sam Peckinpah nel suo più celebre Il mucchio selvaggio (1969). Di questo film esistono centinaia di plagi, mai alla stessa altezza ovviamente, ed anche due remakes ufficiali e dal sapore parodistico come il western de I magnifici sette (1960) di John Sturges e come il fantascientifico I magnifici sette dello spazio (1980) Jimmy T. Murakami.

 

 

Bucci Mario

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[i] Gilles Deleuze. L’immagine-movimento. Ubulibri. pg. 216