Vito e gli altri. Antonio Capuano. 1991. ITALIA.
Attori: Nando Triola,
Giovanni Bruno, Mario Lanti, Pina Leone, Giuseppina Fusco, Antonio Iaccarino
Durata: 82’
Napoli. Anni ’90. Tra mille botti
che assordano la città partenopea colta durante la festa del capodanno, ed il
vociare di centinaia di televisori accesi, non si riconoscono due colpi in
particolare, quelli che il padre di Vito ha riservato per sua madre e suo
fratello. La pistola è puntata contro lo stesso Vito, un bambino di undici
anni, ed a impugnarla è ancora suo padre, che però lo risparmia. Entrambi
commentano l’episodio nel momento in cui è avvenuto: il padre dice di aver
bisogno di aria, e il figlio gli ricorda che gli aveva promesso il motorino. Ecco
allora che dopo la televisione, e la pistola, emerge forse il vero simbolo di
un nuovo “sorpasso”, il motorino, per i più giovani sinonimo di libertà e fuga,
identità e potenza (meccanica), di una generazione cresciuta ed educata dalla
televisione, figlia cioè di quel processo edonistico sviluppatosi
particolarmente durante gli anni Ottanta, gli anni dei lustrini e delle
spalline, e che continua ad essere mantenuto in vita dall’immagine
pubblicitaria che vende sogni a chi vive nella finzione dell’esistenza. Il
motorino dunque, come l’auto sulla quale Gassmann sfrecciava attraversando il
boom del dopoguerra, per una metafora che nelle mani di Antonio Capuano (con
questo film esordiente dietro la m.d.p.) diventa più cruda, senza censura,
senza l’artificiosità del linguaggio cinematografico (il film infatti rincorre
la negazione della consueta narrazione cinematografica) senza perdere di vista
l’obbiettivo di raccontare una storia vera: quella della maggior parte dei bambini
abbandonati alla sola educazione della strada (come aveva già fatto Pier Paolo
Pasolini e la sua poetica riflessione sul reale). Dal giorno dell’omicidio di
sua madre e del fratello, Vito viene affidato a zia Rosetta, parente incapace a
dare alternative, a mostrargli un’altra via, e così incomincia una vera e
propria scalata verso i vertici ideologici più alti della delinquenza
organizzata, dando forma ad una propria gang, costruendo un proprio regime di
regole, sulla falsa riga di quelle degli adulti (i ricchi devono morire;
bisogna farsi la propria camorra; la televisione è più importante della mamma;
quando rubi non devi aver paura; bisogna provarci gusto nel fare le cose;
diventare boss). Da quell’omicidio famigliare dunque, è tutto un crescendo di
episodi che dai furti arrivano allo spaccio, ed infine tornano all’omicidio. È
una catena di atti delittuosi senza soluzione, perché non è la giustizia che
può porre fine a questo processo, ma la comunicazione e gli interlocutori. Chi
sono infatti gli “altri” cui fa riferimento il titolo? Sono i compagni di Vito
in questa tragedia, ma soprattutto sono persone/cose che stanno allo stesso
mondo, probabilmente nella stessa maniera: televisione, progresso, immondizia,
videogiochi, avvocati, violenza, consumismo, il quadro cioè di una società della
quale Vito è solo il simbolo, l’icona (sebbene il regista abbia cercato in
tutti i modi di evitare questa cosa, facendo confessare più ragazzi, fermi
all’incrocio, con la loro presenza sul territorio), Vito è forse un fiore
all’occhiello che i media fagocitano senza troppe preoccupazioni (le interviste
al ragazzo dopo il riformatorio). Lo sguardo del gruppo che si rivolge alla
città, illuminato dal sole meridionale e rivolto verso la baia napoletana ormai
completa ai loro occhi solo con l’immagine del grande complesso di Bagnoli, è
uno sguardo che non dà la possibilità ai bambini di vedere un’alternativa.
Telenovelas (soap opera – opere per
vendere detersivi) e omini digitali armati di pistole, il video educa i
ragazzi, e così il cinema, nelle mani di Antonio Capuano cerca di fare la
stessa cosa, mettendo in luce però proprio i punti critici dell’immagine stessa,
e della mancanza di contenuti nelle sue capacità comunicative. Facendo un
discorso più ampio sul panorama cinematografico napoletano, il film evita il
fascino popolare che ha contraddistinto la maggior parte dei lavori realizzati
in questo capoluogo, anzi riesce, attraverso la storia di questo bambino (e dei
suoi compagni) a farne un discorso di più ampio respiro, che potrebbe quindi
essere ripreso, tale e quale, per la maggior parte delle città meridionali.
Napoli come Bari dunque, come Palermo, come Reggio Calabria, ma anche come
tante realtà periferiche delle più sviluppate metropoli del nord Italia, per
raccontare di un abbandono, il cui punto di riferimento è prima di tutto la
televisione (presente spesso, forse sempre, in tutte le case e luoghi chiusi in
cui entra la m.d.p.), sorta di nuova educazione famigliare, che viola però la
sfera del privato, e ne ruba (occupa) soprattutto il tempo. È un effetto di
violenza inconscia che viene fatto ai bambini (e che oggi viene ripetuto invece
e perpetrato con assoluta coscienza). Delle pellicole realizzate su questo
tema, di disagio e infanzia, credo che il film abbia la medesima forza de I figli della violenza (1950) di Luis
Bunuel, non solo per l’immagine/metafora dei corpicini che affondano
nell’immondizia (nel film messicano è il luogo dove finisce il cadavere di uno
dei protagonisti, nel film napoletano è addirittura oggetto di divertimento per
alcuni bambini che vi si lanciano) ma perchè riesce a far emergere il contesto
sociale, l’ambiente originario, del quale i protagonisti diventano forse solo
un pretesto drammaturgico, figli della violenza appunto. Nel film di Bunuel non
c’è la televisione, ma emerge forte lo stesso senso di abbandono, indifferenza,
lontananza e silenzio, al quale i bambini reagiscono con la coesione di
infanzie che si ribellano, seguendo l’esempio degli adulti (nel film di Capuano
soprattutto), in un processo che si esaspera ad ogni passaggio generazionale. Che
quello nel quale il regista Antonio Capuano ci riconduce, ancora una volta, sia
l’inferno, lo dice apertamente in testa, con la citazione dantesca, cui nessuno
sfugge, tanto che il mare in lontananza, come meta che ne I 400 colpi (1959) di Françoise Truffaut simboleggiava la fuga
disperata dell’infanzia verso un destino migliore, qui è ostacolata proprio
dalle costruzioni industriali che a Napoli l’ha resa vittima. Il regista non dà
risposte, pone domande di fronte alla realtà (così come pone la macchina da
presa di fronte ai fatti), come l’utilizzo della detenzione minorile, capace di
distribuire la febbre della delinquenza proprio perché antieducativa e
marchiante (come il simbolo del tatuaggio, e dei cinque punti che
contraddistinguono chi è stato dentro). Prima di essere aggressori i bambini
sono aggrediti, dalla televisione, dai palazzi, dalle pubblicità, dalla
necessità del denaro, e spogliati della loro infanzia, della possibilità di
giocare (luna park come surrogato del gioco ma anche del senso del denaro), diventano
strumenti per diffondere il male. Sul senso del film dunque, nessuna
possibilità di uscita, perchè come recita la voce fuori campo di una bambina, i
film sono solo di due tipi, belli se finiscono con un bacio in bocca, brutti se
finiscono come la vita, che è una latrina. È forse anche un gesto di difesa
quello del regista, di messa in guardia, ma lo sguardo dei ragazzi sulla baia
di Napoli, poiché ripetuto due volte, dimostra che su quei bambini una luce
diversa poteva battere, ma solo lontano da quell’inferno dantesco. Proprio
perché non è cambiato nulla dal Messico degli anni Cinquanta, dalla Roma degli
anni Sessanta alla Napoli degli anni Novanta, lasciate ogni speranza, voi che
entrate dunque, perché le cose stanno ancora in quel modo. Un film che fa
riflettere sul presente, sulla base delle esperienze del passato, immaginando
un futuro diverso per tutti i bambini, il più lontano possibile dagli errori
degli adulti.
Bucci Mario
[email protected]
Uno spunto per il dibattito previsto dopo la proiezione: una
riflessione sul tatuaggio in carcere, alla sua immediata riconoscibilità
visiva, e il suo significato comunicativo: secondo gli studi sul processo di detenzione
e la riconoscibilità della colpevolezza di un delitto, spesso si è caduti nel
difetto della discriminazione. Chi era tenuto sotto regime di detenzione (si
pensi ai lebbrosi, ai folli, ai delinquenti, ai barboni) era spesso marchiato,
o macchiato, di una colpa cui era difficile disfarsi. Si pensi ad esempio ad un
estremo caso figurativo della colpa nelle culture in cui si amputavano le mani
ai ladri, proprio per questa necessità di riconoscere il delitto nella
percezione (immediata) visiva della persona (ma anche il senso del tatuaggio
nei campi di concentramento). Con lo sviluppo delle scienze sociali, il
percorso si è man mano evoluto fino a che si è compreso che la riconoscibilità
immediata, tramite la percezione visiva, della detenzione (o del giudizio di
colpevolezza) era un atteggiamento discriminatorio, e si è proceduto verso al
strada della cancellazione di questo atteggiamento. La malavita, perché caratterizzata
invece da un forte senso di appartenenza (famigliarità), ha mantenuto per se
stessa questo processo (sicuramente tribale) in una vera e propria presa di
coscienza della propria auto-discriminazione, come fenomeno di estraneità alla
società. Ciò che una volta veniva imposto ai detenuti per essere riconoscibili (e
costantemente giudicabili) dei delitti commessi, la malavita lo impone a se
stessa attraverso i simboli tribali del tatuaggio e della sua immediata
percezione visiva.