Il
film della regista Byambasuren Davaa mette in scena un universo essenziale,
regolato da una separazione netta, addirittura elementare, tra una natura
domestica e una selvaggia: la prima fatta di famiglia, tenda, gregge, giochi
infantili, legami forti e arcaici con un paesaggio montano inquadrato in una
sfolgorante bellezza estiva; la seconda incarnata da cani selvatici,
imbastarditi con lupi famelici, ed enormi avvoltoi, pronti a ghermire la
preda di turno per trascinarla sulle vette di questo sconfinato paese, la
Mongolia, incuneato fra la Russia e la Cina. In mezzo alla cesura resta il
piacere di accompagnare la macchina da presa che racconta una storia antica,
ascoltata da bambina dalla regista, diventata pagina scritta nel racconto di
Ganthuya Lhagva, per assumere la valenza di leggenda popolare attraverso la
narrazione di un’anziana, che descrive alla piccola Nansal le vicende di una
ragazza in punto di morte, salvata dal sacrificio del suo cane giallo.
Seguendo l’antidoto prefigurato dallo sciamano, la morte della bestia avrà
l’effetto miracoloso di guarire la giovane e addirittura di produrre esiti
ancor più benigni, perché quel cane giallo rinascerà come neonato della
ragazza miracolata…
L’apologo del film risiede in questa esile storiella, che offre lo spunto
per mostrare la quotidianità di un’autentica famigliola di pastori nomadi,
la famiglia Batchuluun, che trascorre la sua esistenza in questa regione
sperduta della Mongolia alle prese con occupazioni che scandiscono la
giornata in maniera semplice e naturale, in sintonia con i ritmi della
stagione.
L’armonia con la natura domestica viene talvolta funestata dall’irrompere
della componente selvaggia, perché nottetempo i lupi possono sempre
sopraggiungere a sbranare qualche pecora o qualche altro fattore casuale può
mettere a repentaglio la quiete familiare, una volta abbassata la guardia,
ma per fortuna in questo regno esistono i cani, animali fedeli e amici
dell’uomo, che, anche se messi ai margini, sono capaci di sacrificarsi e
spesso anche di salvare il destino dell’umanità, perché a loro è concesso il
privilegio o la sventura di potersi reincarnare.
Il prologo del film anticipa l’epilogo, intervenendo a spiegare in maniera
didattica questa concezione del mondo: un padre e una figlia, inquadrati in
campo lungo all’interno di un tramonto dai colori essenziali, che ha il
potere di cesellare le loro figure in ombra tra la terra e il cielo, si
accingono a dare sepoltura a un cane.
La
bimba domanda: “Papà, perché gli metti la coda sotto la testa?”, il genitore
risponde: “Così rinasce uomo con la treccia e non cane con la coda”.
“Rinasce?”, incalza la piccola, “Tutti muoiono, ma in realtà non muore
nessuno” conclude il padre. Questa metafora iniziale, a cui viene attribuita
l’importante funzione di fare da filo rosso per cucire l’intera storia, se
da un lato rende tributo a una spiritualità in chiave buddista che serpeggia
all’interno della yurta, con gli altarini votivi e i relativi ammennicoli di
offerte di rito, dall’altro ha il pregio di veicolare una concezione della
morte intesa non come punto finale dell’esistenza, bensì come inizio di una
nuova vita, a cui viene concesso ai ranghi inferiori della specie, in
particolare ai cani, di poter raggiungere un gradino più alto: diventare
umani, nonostante il film dimostri come il cane protagonista, Zochor,
chiamato “Macchia” dalla piccola Nansal che l’ha adottato, sia capace di
essere umano o di avere comportamenti simili, ancor prima di schiattare.
Lo spettatore aveva capito questa particolare attenzione al mondo degli
animali, intrecciato a quello degli uomini, già nel precedente film della
regista, La storia del cammello che piange, dove, sempre seguendo il
linguaggio delle favole, si mostrava lo strano caso di una cammella in
lacrime nel deserto meridionale del Gobi, recalcitrante all’idea di nutrire
il suo cucciolo.
Un
pulmino riporta Nansal a casa (ovvero alla tenda sperduta nella steppa) per
le vacanze estive: ha concluso un ciclo scolastico ed è felice di poter
riabbracciare i genitori e i fratelli; non vede l’ora di togliersi la
scomoda divisa scolastica, perché il colletto inamidato è fastidioso e
preferisce indossare una comoda tunica colorata. La bimba è fiera di
mostrare i suoi quaderni da scolara modello al padre: una serie di numeri e
lettere ordinate come una sequenza di aste riempiono pagine e pagine del suo
manoscritto, ma il padre, che è intento a svestirla, sembra più propenso a
scoprire se a scuola ha imparato nuove canzoni da insegnare alla sorellina.
Non lo sapremo, purtroppo, perché la piccola non ci delizierà con la sua
vocina infantile, d’altra parte sarebbe stata costretta al doppiaggio, per
cui meglio così!
Nel frattempo capisce che il lupo è passato e ha avuto la meglio su alcune
pecore del gregge, accudito dal padre.
Pur studiando in città, Nansal si ritrova completamente a suo agio a casa:
gioca con i fratelli a costruire città invisibili, le cui case sono fatte
non con i pezzi del lego, bensì con le sagome essiccate dello sterco, che
viene usato anche come combustibile, per alimentare un fuoco, dove la madre
è intenta a girare il latte per ottenere il formaggio. Essendo già
grandicella a lei spettano anche compiti e responsabilità maggiori: viene
mandata infatti a raccogliere lo sterco con una gerla a tracolla e un
bastone appuntito, però sbaglia sempre la mira quando deve centrare il
contenitore che le penzola maldestramente sulla schiena, oppure si sofferma
a contemplare il paesaggio, girovagando tra terreni fioriti, persa a
scrutare un fiore raccolto o incuriosita da una cavità naturale, dove finge
di aspettarsi che esca un lupo, mentre in realtà farà la sua comparsa il
trovatello cane Macchia, non giallo come il titolo del film o il colore
della fascia della sua tunica che fungerà subito da guinzaglio improvvisato,
bensì un cagnolino tutto bianco con un’unica pezza nera sul dorso.
Sarà amore a prima vista: la bambina ha trovato il cane e pertanto le
appartiene, nonostante i genitori contrastino la sua decisione e cerchino di
convincerla a riportarlo indietro. Il padre teme sia un cane selvatico,
cresciuto insieme ai lupi, pertanto ostile al suo mondo; la madre pensa sia
un animale smarrito e quindi sia giusto ritrovarne il legittimo padrone;
Nansal sa soltanto che l’ha trovato lei, in un posto dove non c’erano lupi,
e siccome non ha una mamma, sarà lei a occuparsi d’ora innanzi di lui.
La testardaggine della bambina sarà messa a dura prova da una lezione
materna: “Riesci a morsicarti il palmo della mano?”. Nansal ci prova, tenta
con tutta la forza delle labbra aperte di conficcare i suoi denti nel palmo
per addentarlo, inutilmente si dispera di fronte agli innumerevoli tentativi
dagli esiti infelici. “Allora non puoi avere tutto quello che vuoi”
l’ammonirà la madre, cercando di convincerla a riportare indietro il cane,
diventato un nuovo compagno di giochi, da alternare a quelli fatti dentro e
fuori la tenda con i suoi due fratellini, che si divertono a dare contorni
animali alle nuvole, interpretate come immagini ipnagogiche capaci di
sprigionare un bestiario, di cui solo lei, perché più grande e scolarizzata,
è in grado di conoscerne i veri referenti.
Mentre il padre parte con la motoretta per andare a vendere in città le
pellicce delle bestie azzannate dai lupi, Nansal sale in groppa al cavallo
per riportare Zochor nella grotta. La piccola ha un solo punto di
riferimento per non perdere la bussola e smarrirsi: guardare sempre la cima
della montagna e dirigersi verso di essa. Strada facendo saranno molte le
distrazioni: una sosta al fiume per rinfrescarsi e sperare che almeno il
cagnolino possa riuscire dove non ce l’ha fatta lei, ovvero a morsicarle il
palmo della mano; una passeggiata tra i resti di un accampamento
abbandonato, un’arrampicata tra i dirupi, intanto si fa sera e un temporale
avanza.
Nansal dapprima smarrisce il cagnetto, poi lo ritrova addormentato nel
recinto dell’accampamento fantasma, infine si perde lei, ma per fortuna
raggiunge la tenda dell’anziana, che la nutrirà e la scalderà, raccontandole
come una nenia la storia della ragazza del cane giallo della Mongolia,
mentre le mani della nonnina inviteranno la piccola a far cadere del riso
sopra la cruna di un ago: “Perché ci sono altrettante possibilità che un
chicco resti appoggiato sopra la cruna di un ago, quanto quelle di un uomo
di reincarnarsi in un uomo”. E un chicco prima o poi ci resta a forza di
provare.
Un leitmotiv questo, che può apparire persino un po’ subdolo, ma è proprio
il ritmo umano (da noi percepito invece come esotico) a permettere di
immaginare l’eterna ricorrenza del ciclo vitale: la vita per l’umanità messa
in scena, proprio perché immersa nella natura, è un tutt’uno che non muta
mai in quantità; si muore e si rinasce in un afflato costante.
La madre recupera la piccola, mentre il fratellino e la sorellina, rimasti
soli nella yurta, si divertono a giocare con i budda di ceramica laccata,
facendo smorfie e borbottii di fronte a uno specchio, che li riprende in una
falsa oggettiva, concedendo così alla macchina da presa il piacere di
sdoppiare/raddoppiare una sensibilità tutta femminile nell’inquadrare in
maniera tenera queste creature, che non stanno affatto recitando, ma sono
spontanei come tutti i bambini sulla faccia della terra. La sequenza (una
delle tante dove la regista preferisce avvicinarsi ai soggetti, riprendere
corpi che rotolano infagottati o ricorrere ai primi piani, non foss’altro
per mostrare l’incarnato di faccine bianche con le gote dai pomelli rossi)
sa abilmente incastonare le figure in campo, seguendone gli spostamenti nel
contesto familiare della tenda: un mondo che protegge all’interno di
tendaggi, in mezzo a tappeti variopinti, dove stendersi a riposare, quando
ormai si è stanchi morti.
L’estate finisce e la famigliola si accinge a scendere dai monti per
avvicinarsi alla città, e anche la yurta viene smontata pezzo a pezzo, quasi
officiando a un rito che si conclude con il ringraziamento alla terra che ha
dato loro ospitalità.
La tenda montata appare come un oggetto unico e solido, poi si scopre
gradualmente che è fatta in realtà di tanti piccoli elementi, ognuno dei
quali può avere una funzione anche separato dagli altri (i bastoni lunghi,
le pelli…), ma tutti sono rigorosamente naturali: non c’è plastica, anzi
l’unico utensile di plastica presente nel film è destinato, non a caso, a
fondersi e a perdere le sua forma originaria.
Nansal deve prendere congedo da Macchia, legato a un palo per impedirgli di
seguire la carovana in partenza. Ma il finale non potrà contraddire
l’assunto leggendario del film, pertanto al cane verrà data la possibilità
di riscattare la natura selvaggia, superando una prova decisiva: avrà il
coraggio di salvare il più piccolo dei fratelli di Nansal, destinato a
diventare preda di uno stormo di enormi avvoltoi, assicurandosi così un
posto all’interno della famiglia Batchuluun e forse un futuro passaggio di
grado.
Resta soltanto un dubbio: seppur portandosi appresso la tenda, saprà questa
famiglia - che ha accettato di spostarsi dalla campagna alla città, dove
invece è in corso “una campagna elettorale”, come urla la voce
all’altoparlante del furgoncino che è costretto a frenare la sua corsa per
dar tempo al gregge di sgombrare la strada – resistere alla contaminazione
del progresso e al consumismo, che fa nascere anche il desiderio di comprare
oggetti artificiali come la plastica, per salvare la memoria di un rapporto
autentico con la madre terra? Ma questa è un’altra storia, forse persino più
banale e conformista, infatti alla regista interessa filmare quello che c’è
prima, ossia la sua cultura d’origine, gli insegnamenti morali che si
possono trarre dalle leggende e soprattutto la bellezza di paesaggi
incontaminati, come quelli della regione nord ovest del suo paese, la
Mongolia, dove ancora vivono pastori nomadi in tende bianche dai colori
incantevoli all’interno, capaci di resistere all’idea di migrare verso
stanziamenti urbani. Sarà mica perché nella loro vita passata erano cani
gialli!?