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Volver
Anno: 2006
Regista: Pedro Almodovar;
Autore Recensione: -Andrea Caramanna
Provenienza: Spagna;
Data inserimento nel database: 22-05-2006


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Volver

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di Pedro Almodóvar; sceneggiatura: Pedro Almodóvar; fotografia: José Luis Alcaine; musica originale: Alberto Iglesias; con: Penélope Cruz (Raimonda), Carmen Maura (Abuela Irene),  Lola Dueñas (Sole), Bianca Portillo (Agustina), Yohana Cobo (Paula), Chus Lampreave (zia Paula); produzione: Agustín Almodóvar, Esther García; Spagna, 2006

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Tornare indietro, sui propri passi, accettare il presente come possibilità di fuga. Ma arriva il giorno che tornare coincide con andare avanti, nel futuro. È questa la semplice formula del melodramma almodóvariano: serie di eventi che si dilatano come una qualsiasi narrazione, vedi in questo caso l’omicidio “accidentale” di Paco, ed immediatamente il ritorno ad una figura del passato. Figura sempre ingombrante, l’incesto o la molestia psicosessuale contro la donna. Il cinema di Pedro Almodóvar è gioco di sceneggiatura. Lo si capisce subito, quando alcune inquadrature “griffe”, che sono lì come la firma di un autore “qualsiasi”, quella a piombo sul seno della Cruz, lasciano il tempo che trovano. Sono buttate alla rinfusa in un testo che poggia più che altro sull’articolazione del racconto, sulle pieghe intime. Il cinema di Almodóvar appare sempre più distaccato dalla materia che narra. Non a caso è escluso ogni pathos ed il dramma di una figlia che uccide il padre è rappresentato come routine, gli affetti familiari sono già svuotati, privi di slanci. E l’immagine del cadavere si limita ad un’inquadratura a piombo dall’alto sul corpo circondato da un lago di sangue che si allarga. Il trasporto del morto non esprime alcuna passione, né quella drammatica, né quella grottesca come nei grandi esempi cinematografici dal Peckinpah di Voglio la testa di Garcia a Le tre sepolture di Tommy Lee Jones. Questo cedimento nel cinema di Almodóvar lascia spazio a ben poco. Almodóvar non vuole soffermarsi sugli aspetti intrinseci della storia, quanto sul suo sviluppo comico, più superficiale possibile. L’organizzazione di una nuova vita che deve passare attraverso lo svelamento di un segreto, sembra quasi un fatto secondario, sebbene le lacrime scorrano sui visi. Il cinema di Almodóvar, privandosi degli squarci di immaginario inconsueti delle opere “giovanili”, è passato ad una maturità fin troppo composta, laddove la messa in scena è un rapporto intenso, esclusivo, con il corpo dell’attore. Le misure organiche della protagonista, sedere e seno scrutati da vicino dalla macchina da presa, la serie di dettagli che trovavamo nelle sue opere precedenti, e che rimangono come segni fondamentali: le parti del corpo. I piedi della Cruz sulle scarpe coi tacchi alti guardati alla stessa altezza dalla madre Carmen Maura; la consueta pisciata che è del tutto gratuita, ma è pur sempre un’espressione viscerale del corpo. Rapporti con il corpo figurati dalla malattia, il tumore, o perfino dagli odori intestinali che felicemente entrano in campo, in maniera sublime, quando la figlia sente la puzza della madre, che innesca la memoria (olfattiva), il ricordo e il ritorno automatico al passato. E naturalmente i corpi dolenti, sfigurati da una vecchiaia, che non consente movimenti, ma soprattutto pregiudica in modo definitivo la lucidità della coscienza. Ottimo presupposto per tramare il coupe de théâtre del fantasma. È un gioco ordito sulla sottile capacità cinematografica di rappresentare un fantasma in carne ed ossa. Salvo poi rivelarlo come corpo effettivo, come presenza assolutamente normale, frutto di un’altra vicenda storica. Ancora un gioco di sceneggiatura, ma anche un bel modo di aprire una figura ad una serie di ambiguità , tanto che per buona metà Volver è un film quasi fantasy, ancorato allo stupore ed al contatto con i morti, e la scena iniziale si svolge proprio nel cimitero di famiglia, laddove i congiunti manifestano il loro concreto attaccamento alle sepolture, come segno d’altri tempi. Non è una caratteristica secondaria il ritorno ai rituali funerari tanto che alla scomparsa della zia, la mdp ci accompagna tra alcune veglie funebri che sembrano davvero una cosa d’altri tempi. Se il ritorno è la figura principale del film, annunciata chiaramente nel titolo, tale elemento ha di sicuro coordinate molto espanse. Almodóvar non si limita ad alcune storie, ma a scoprire l’universo femminile, che sembra anche l’unico possibile, di un universo umano, fatto di generazioni il cui legame consiste nelle trame segrete  e complici delle donne. È forse l’unico film di Almodóvar che tenta di considerare la dimensione femminile, senza ambiguità omosessuali, come l’unica possibile. Come il nucleo fondamentale dell’umanità. E per questo ai maschi è riservata solo l’ombra tra positivo e negativo, dove la prima è la semplice gentilezza dei componenti della troupe, la seconda è molto più esplosiva e temibile, si rinnova di generazione in generazione: Paco è solo il maschio di turno da eliminare, perché alla donna sia lasciato uno spazio minimo di sopravvivenza, di residua libertà.

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andrea caramanna

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