Zero
in condotta. Jean Vigo. 1933. FRANCIA.
Attori: Jean Dasté, Robert Le Flon, Delphin, Louis
Lefèbvre, Gilbert Pruchon, Gérard de Bedarieux, Constantin Goldstein-Kehler
Durata: 47’
Altro Titolo: Zéro de
conduite
Fine delle vacanze, il ritorno. Due collegiali s’incontrano in
treno di notte. Scherzano e giocano alla presenza di un uomo addormentato e
quando arrivano in stazione trovano il resto dei compagni ad attenderli,
guidati dal censore. Scoprono che l’uomo del vagone è il nuovo professor
Huguet. L’isitituto nel quale sono tenuti è caratterizzato da un rigido
cameratismo tanto che già la prima sera tre di loro vengono messi in punizione con
uno zero in condotta. Complotto di
ragazzi. Stanchi di essere puniti senza aver fatto niente, i tre perseguitati
decidono di organizzare una rivolta, ma sono in dubbio se accettare anche Tabart
fra loro, che credono invece una spia. Durante l’ora di ricreazione il maestro
Huguet fa il verso a Chaplin mentre il censore, che i ragazzi apostrofano come “cornacchia”
(bec de gaz) ruba loro la cioccolata in classe. I ragazzi se ne accorgono e
decidono di incollare i libri dell’istituto. Arriva anche il rettore a far loro
visita in preparazione della festa che si terrà a giorni mentre in città, con
tutti gli alunni al seguito, il professor Huguet si perde per strada dietro una
donna. Caussat dal suo raccomandatario e
Colin da mamma fagiolo, sua madre. All’ennesimo piatto di fagioli propinato
ai ragazzi segue un accenno di rivolta, mentre Tabart viene accettato nel
gruppo con il formale gesto della divisione della cioccolata. Dopo aver
risposto male al professor di scienze, Tabar è obbligato dal rettore a
chiedergli scusa davanti alla classe ma questi si rifiuta e lo manda a quel
paese. A notte nel dormitorio viene organizzata la rivolta a suon di cuscini. La mattina dopo complice dei quattro la
stanchezza…. Il trio con Tabar si chiude nel granaio mentre nel piazzale
dell’istituto è in scena la festa di celebrazione cui partecipano le maggiori
autorità. Saliti sul tetto i quattro ragazzi lanciano qualsiasi cosa contro le
figure istituzionali presenti alla festa, interrompendo le celebrazioni ed
ottenendo una rivolta, spinta fra l’altro anche dal professor Huguet.
Condannato dalla censura politica
del suo paese nel quale uscì solo dopo il 1945, il primo mediometraggio del
ventottenne Jean Vigo fu tacciato per quasi un decennio come antifrancese,
poiché mosso da formule anarchiche di rivendicazione della creatività e
sovversione dell’ordine, in realtà accusato soprattutto dall’organizzazione dei padri di famiglia. Ad
una condizione di sottomissione ingiustificata, come è quella del fanciullo nei
confronti della società organizzata (quello zero in condotta che condanna ogni
loro movimento) il regista contrappone una poetica dell’immaginazione e della
vivacità in grado di interrompere una festa istituzionale e di costringerne i
rappresentati ad asserragliarsi nel propri palazzi, mentre giovani
rivoluzionari ne conquistano i tetti degli stessi palazzi, raggiungendo così il
cielo e la libertà. Siamo di fronte ad un manifesto della rivolta dunque, ed è
una delle primissime volte nella storia del cinema che il racconto viene messo
al servizio di questo messaggio, radicato nella necessità di vivere dei piccoli
protagonisti. Tratto da un’esperienza autobiografica, ciò è ancor più evidente
nella forma dei messaggi che Vigo riprende da quelli del padre, l’anarchico
Miguel Almereyda, anagramma della frase di denuncia antiborghese Y a la merde, la stessa che
nell’edizione originale pronuncia il giovane Tabart (tradotta in italiano con “vada al diavolo!”) contro il rettore (rappresentato
dal nano Delphin) ed il professor di scienze (sul quale il regista sembra voler
far cadere dubbi di pedofilia con il dettaglio, uno dei pochi del film, in cui
l’uomo posa la mano su quella del ragazzo). Momenti delicati si incastrano
perfettamente nelle scene dal maggior contenuto visivo/emotivo: il carrello
all’indietro sulla figura di Colin nella cucina con “mamma fagiolo”, e
naturalmente la guerra dei cuscini (ispirata a La febbre dell’oro (1925) di C. Chpalin, il cui riferimento è
esplicito nella caricatura fatta dal professore durante la ricreazione) nella
quale l’uso del rallenti e d’immagini al contrario intervengono rendendo
assoluta una rivolta che inizia per mano e modi come se fosse una ragazzata e
che man mano assume connotati
esclusivamente politici (inquadratura fissa e ragazzi che passano, totali con
le piume che ricordano il freddo vento dell’est) e sulla quale è aggiunta la
musica di Maurice Jaubert, ma al contrario. L’intera sequenza è definita anche sinfonia in bianco maggiore [i] per
la luminosità con la quel è rappresentata. Tutte cariche (o caricaturali
sarebbe meglio dire) le figure mature dell’istituto, dal censore alto e
spilungone chiamato “cornacchia” fino al rettore, più piccolo degli stessi
alunni. In un modo o nell’altro si è cercato di includere questo lavoro (come
anche il seguente L’Atalante (1934)
dello stesso Vigo) tra le pellicole legate alla corrente surrealista, ma in
realtà essa è un esempio tangibile del passaggio dal surrealismo
cinematografico (le sequenze al contrario o il maestro a testa in giù) al
realismo poetico alla Renè Clair che caratterizzerà il cinema francese proprio
negli anni Trenta. Il film rimane comunque un sincero inno alla libertà, cui la
giovinezza non può rinunciare. L’operatore alla macchina da presa è Boris
Kauffman, collaboratore con il regista per altri film, e fratello soprattutto del
regista Dziga Vertov. Sono passati solo pochi anni dall’introduzione del
sonoro, ma il regista sceglie ugualmente di usarne il meno possibile a causa
delle estreme difficoltà che ancora si presentavano per la presa diretta,
ottenendo così un racconto secco capace ancora di concentrare il proprio messaggio
nelle immagini. Rimane un modello per tantissimi altri film che ne riprendono
l’esatta struttura, o solo alcune caratteristiche (come l’ordine e
l’organizzazione emotiva che si crea in una situazione cameratesca). Nei giorni
in cui il film fu tolto dalle sale, il regista moriva di setticemia. La
condanna è dentro, fuori è la libertà.
Bucci Mario
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