Trash
– I rifiuti di New York. Paul
Morrissey. 1970.
U.S.A.
Attori: Joe Dallesandro, Holly Woodlawn, Jane Forth, Gerry Miller, Michael
Sklar, Bruce Pecheur, Andrea Foldman, Johnny Putman, Diane Podwski.
Durata: 113’
Titolo
originale: Trash
New York. Joe Smith è con una
ragazza, ma non riesce ad avere un’erezione, e la cosa si ripete da quando è
diventato un tossicodipendente. La ragazza allora prova prima a fare un
balletto per eccitarlo, ma senza risultato, e poi gli offre dieci dollari nel
caso riesca almeno lui ad eccitare lei, ma Joe si dimostra incapace anche a
questo. Torna nella stanza dove la sua compagna Holly Santiago, in realtà un
barbone travestito, lo lascia dormire assieme al suo cane. Una sera, in strada,
Joe conosce una ragazza in cerca di lsd, va a casa di lei e dopo essersi
iniettato una dose d’eroina cerca di violentarla, ma senza successo. Una volta
di nuovo a casa, mentre sta cercando di metterne un po’ d’ordine, Holly arriva
con un liceale al quale inietta una dose d’eroina e poi abusa di lui una volta
che la droga gli ha fatto effetto. Una mattina Joe, con l’intenzione di
compiere un furto, s’introduce nell’appartamento di una coppia di borghesi
liberal che, dopo averlo fatto ripulire ed avergli fatto iniettare una dose d’eroina,
litigano fra loro e lo buttano fuori di casa che è ancora nudo. A casa di Holly
arriva la sorella la quale, incinta, offre di darle il bambino in affidamento.
L’occasione è buona perché darebbe la possibilità alla coppia di chiedere il
sussidio. Intanto Joe gli rifiuta per l’ennesima volta di avere un rapporto
sessuale, e costringe Holly a masturbarsi con una bottiglia di birra. La
sorella intanto dovrebbe trasferirsi nella loro stanza ma quando il travestito
scopre Joe che prova ad andarci a letto, Holly la caccia. L’idea del sussidio
però non viene abbandonata e la coppia prova allora ad ottenerlo fingendo che Holly
sia incinta. Poiché il signor Michaels, l’uomo che dovrebbe fargli ottenere il
sussidio, vuole le scarpe di lei in cambio del favore, alla fine, per un
litigio, la coppia è scoperta: non è incinta, ma ha un cuscino al posto della
pancia. Il destino ha voluto che tornassero a fare quello che hanno sempre
fatto.
Secondo episodio della trilogia
di Morrissey, con qualche variante estetica ed una maggiore attenzione alla drammaturgia.
Girato in otto weekend, ovviamente con mezzi che vanno ben sotto la definizione
di low budget, Trash è una storia d’estremo degrado della vita newyorchese di
strada, fatta d’immondizia, prostituzione, travestitismo, droga ed assoluta
mancanza di sincerità. Sebbene il film metta insieme una serie d’episodi crudi,
ma reali come la vita di strada, conserva al tempo stesso un’idea di base che
ruota attorno al concetto d’amore, soprattutto grazie al finale, (la battuta di
Holly che chiede a Joe di potergli fare un servizietto), miserabile come la
loro esistenza, ma comunque vitale. Personaggi sovraccaricati (di vita) che si
muovono sullo schermo come fosse un teatro, il teatro della vita appunto, fatto
di scenografie (stanze chiuse) soffocanti, che riproducono il vero attraverso
il falso (si tratta di vere scenografie e di false inquietudini scenografiche
di strada), e situazioni che oscillano tra la logorroicità di personaggi non
abituati ad ascoltare e silenzi altrettanto fastidiosi, esistenziali. Da un
punto di vista stilistico Morrissey abbandona il montaggio che caratterizzò il
primo capitolo della trilogia, Flesh
(1968), fatto cioè di stacchi e inquadrature non proprio narrative (piani
d’ascolto che guardano pezzi di corpi, scarti, movimenti delle mani) ma che
anticipavano di gran lunga il modello dogma
reintrodotto agli inizi degli anni novanta dal regista danese Lars von Trier,
preferendo di più i piani sequenza, tirati all’estremo e girati con uno stile
che sembra assumere un carattere sempre più personale. Morrissey, infatti,
grazie anche alla collaborazione di Joe Dallessandro, il suo attore feticcio e
sul quale la trilogia è costruita, non piazza la camera dove si potrebbe
ottenere la migliore fotografia, ma la muove in costante ricerca di espressioni
vitali, di movimenti naturali sui quali i dialoghi stendono la storia. Questa
soprattutto sembra molto più curata rispetto al precedente lavoro (in sintesi: lui
doveva prostituirsi per far abortire l’amica della compagna) e segue
perfettamente il filo del discorso lanciato già dal titolo: immondizia. Sì,
perché immondizia è tutto ciò che passa sullo schermo, dal sesso impotente di
Joe a quello ninfomane del suo compagno travestito (e delle altre donne del film,
tutte attratte dallo scultoreo corpo del biondo attore), dalla coppia sposata
che si urla addosso una serie di pensieri repressi (e del quale Joe è vittima,
strafatto d’eroina che si tappa le orecchie per non sentirli) fino al signor
Michales, che dovrebbe fargli ottenere il sussidio. Proprio in merito a
quest’ultima figura, è interessante scoprire il gioco del ribaltamento
narrativo messo in pratica dal regista, grazie al quale ad ogni azione, ad ogni
fatto, corrisponde spesso una contro-azione che elimina e capovolge gli effetti
della prima: l’uomo del sussidio che sembra un diavolo per come ricatta la
coppia in cambio delle scarpe di Holly, e che poi scopre di essere stato egli
stesso raggirato; la coppia di borghesi che accetta Joe in casa e che poi lo
caccia; la sorella che viene accolta in casa ma che poi cerca di andare a letto
con Joe. Ad ogni azione, sembra voler dire Morrissey, corrisponde il suo lato
negativo, di ogni oggetto, come può essere un materasso o un mucchio di
cassetti, corrisponde il suo senso negativo, il fatto che essi possono
diventare rifiuti, scarti. Il sentimento c’è, ma è nascosto sotto l’apparenza
dello scarto. Disturbante, purtroppo, la versione italiana, benché curata da
Pier Paolo Pasolini [i] e Dacia Maraini, poiché doppiata
da gente che non ha mai fatto dizione (e si sente), che tradisce l’aspetto reale
inficiandolo di dialetti e cadenze che con la città di New York non hanno nulla
a che fare. A livello teorico, infatti, il doppiaggio scelto dal poeta è
corretto, visto che anche gli attori non sono professionisti, ma il senso di
realtà estrema che il regista vuole ottenere, raccontata da queste voci
italiane, ne fa perdere proprio la sua potenzialità. Decisamente meglio seguire
il film in lingua originale. Strepitosa è l’interpretazione del travestito Holly
Woodlawn, la vera stella di questo film, eccezion fatta ovviamente per Joe
Dallessandro, che non recita mai, e che sebbene non riesca nemmeno ad essere
completamente se stesso, risulta ugualmente necessario a questa trilogia, per
il solo fatto che si lascia costruire addosso una serie di situazioni al limite
del paradosso, a metà strada tra il grottesco ed estenuante mondo della droga
ed il suo contrappeso, la deriva verso il rifiuto. Entrambi i loro personaggi
si equivalgono sulla bilancia della rappresentazione della vita, lei votata
alla vita e che deve controbilanciare l’autodistruzione del suo uomo,
confluendo nella stessa sorte, che li vuole condannati ad accettare la
condizione nella quale si trovano. Attori che giocano con le loro realtà, nelle
quali s’impastano, dalle quali emergono, nelle quali tornano. È questo uno dei
valori fondamentali di questo lavoro. Divertente e (forse) sincero, ha punte
levate e picchi d’eccesso in perfetta armonia con lo stile del regista e della factory, quella di Andy Warhol (in veste
di produttore), che lo circonda ed alla quale tutti, in quegli anni,
aspiravano. Un documento storico, assieme a tutta la trilogia, in grado di
cambiare il modo di fare cinema, senza riuscire a farlo veramente (senza cioè
rispettare la maggior parte delle regole grammaticali che esso richiederebbe).
Proprio per questo, una pietra miliare, non solo del cinema underground, poiché
da quest’immondizia alla fine, tutto è stato sottratto e tanti registi, più in
là, hanno alla fine affondarci le mani dentro. Il titolo del film fa
riferimento ad una poesia di Allen Ginsberg, uno dei fondatori del movimento beat, del quale anche altri versi
vengono citati nel film, dalla ragazza in cerca di lsd. Quando la pellicola
uscì nelle sale, l’attrice Holly Woodlawn non potette partecipare alla prima
poiché in carcere per una delle tante storie di tossicodipendenza. Vietato ai
minori di diciotto anni, in Italia uscì solo nel 1974.
Bucci Mario
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