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Trash – I rifiuti di New York
Anno: 1970
Regista: Paul Morrissey;
Autore Recensione: Mario Bucci
Provenienza: USA;
Data inserimento nel database: 25-04-2005


Trash

Trash – I rifiuti di New York.  Paul Morrissey. 1970. U.S.A.

Attori: Joe Dallesandro, Holly Woodlawn, Jane Forth, Gerry Miller, Michael Sklar, Bruce Pecheur, Andrea Foldman, Johnny Putman, Diane Podwski.

Durata: 113’

Titolo originale: Trash

 

 

New York. Joe Smith è con una ragazza, ma non riesce ad avere un’erezione, e la cosa si ripete da quando è diventato un tossicodipendente. La ragazza allora prova prima a fare un balletto per eccitarlo, ma senza risultato, e poi gli offre dieci dollari nel caso riesca almeno lui ad eccitare lei, ma Joe si dimostra incapace anche a questo. Torna nella stanza dove la sua compagna Holly Santiago, in realtà un barbone travestito, lo lascia dormire assieme al suo cane. Una sera, in strada, Joe conosce una ragazza in cerca di lsd, va a casa di lei e dopo essersi iniettato una dose d’eroina cerca di violentarla, ma senza successo. Una volta di nuovo a casa, mentre sta cercando di metterne un po’ d’ordine, Holly arriva con un liceale al quale inietta una dose d’eroina e poi abusa di lui una volta che la droga gli ha fatto effetto. Una mattina Joe, con l’intenzione di compiere un furto, s’introduce nell’appartamento di una coppia di borghesi liberal che, dopo averlo fatto ripulire ed avergli fatto iniettare una dose d’eroina, litigano fra loro e lo buttano fuori di casa che è ancora nudo. A casa di Holly arriva la sorella la quale, incinta, offre di darle il bambino in affidamento. L’occasione è buona perché darebbe la possibilità alla coppia di chiedere il sussidio. Intanto Joe gli rifiuta per l’ennesima volta di avere un rapporto sessuale, e costringe Holly a masturbarsi con una bottiglia di birra. La sorella intanto dovrebbe trasferirsi nella loro stanza ma quando il travestito scopre Joe che prova ad andarci a letto, Holly la caccia. L’idea del sussidio però non viene abbandonata e la coppia prova allora ad ottenerlo fingendo che Holly sia incinta. Poiché il signor Michaels, l’uomo che dovrebbe fargli ottenere il sussidio, vuole le scarpe di lei in cambio del favore, alla fine, per un litigio, la coppia è scoperta: non è incinta, ma ha un cuscino al posto della pancia. Il destino ha voluto che tornassero a fare quello che hanno sempre fatto.

Secondo episodio della trilogia di Morrissey, con qualche variante estetica ed una maggiore attenzione alla drammaturgia. Girato in otto weekend, ovviamente con mezzi che vanno ben sotto la definizione di low budget, Trash è una storia d’estremo degrado della vita newyorchese di strada, fatta d’immondizia, prostituzione, travestitismo, droga ed assoluta mancanza di sincerità. Sebbene il film metta insieme una serie d’episodi crudi, ma reali come la vita di strada, conserva al tempo stesso un’idea di base che ruota attorno al concetto d’amore, soprattutto grazie al finale, (la battuta di Holly che chiede a Joe di potergli fare un servizietto), miserabile come la loro esistenza, ma comunque vitale. Personaggi sovraccaricati (di vita) che si muovono sullo schermo come fosse un teatro, il teatro della vita appunto, fatto di scenografie (stanze chiuse) soffocanti, che riproducono il vero attraverso il falso (si tratta di vere scenografie e di false inquietudini scenografiche di strada), e situazioni che oscillano tra la logorroicità di personaggi non abituati ad ascoltare e silenzi altrettanto fastidiosi, esistenziali. Da un punto di vista stilistico Morrissey abbandona il montaggio che caratterizzò il primo capitolo della trilogia, Flesh (1968), fatto cioè di stacchi e inquadrature non proprio narrative (piani d’ascolto che guardano pezzi di corpi, scarti, movimenti delle mani) ma che anticipavano di gran lunga il modello dogma reintrodotto agli inizi degli anni novanta dal regista danese Lars von Trier, preferendo di più i piani sequenza, tirati all’estremo e girati con uno stile che sembra assumere un carattere sempre più personale. Morrissey, infatti, grazie anche alla collaborazione di Joe Dallessandro, il suo attore feticcio e sul quale la trilogia è costruita, non piazza la camera dove si potrebbe ottenere la migliore fotografia, ma la muove in costante ricerca di espressioni vitali, di movimenti naturali sui quali i dialoghi stendono la storia. Questa soprattutto sembra molto più curata rispetto al precedente lavoro (in sintesi: lui doveva prostituirsi per far abortire l’amica della compagna) e segue perfettamente il filo del discorso lanciato già dal titolo: immondizia. Sì, perché immondizia è tutto ciò che passa sullo schermo, dal sesso impotente di Joe a quello ninfomane del suo compagno travestito (e delle altre donne del film, tutte attratte dallo scultoreo corpo del biondo attore), dalla coppia sposata che si urla addosso una serie di pensieri repressi (e del quale Joe è vittima, strafatto d’eroina che si tappa le orecchie per non sentirli) fino al signor Michales, che dovrebbe fargli ottenere il sussidio. Proprio in merito a quest’ultima figura, è interessante scoprire il gioco del ribaltamento narrativo messo in pratica dal regista, grazie al quale ad ogni azione, ad ogni fatto, corrisponde spesso una contro-azione che elimina e capovolge gli effetti della prima: l’uomo del sussidio che sembra un diavolo per come ricatta la coppia in cambio delle scarpe di Holly, e che poi scopre di essere stato egli stesso raggirato; la coppia di borghesi che accetta Joe in casa e che poi lo caccia; la sorella che viene accolta in casa ma che poi cerca di andare a letto con Joe. Ad ogni azione, sembra voler dire Morrissey, corrisponde il suo lato negativo, di ogni oggetto, come può essere un materasso o un mucchio di cassetti, corrisponde il suo senso negativo, il fatto che essi possono diventare rifiuti, scarti. Il sentimento c’è, ma è nascosto sotto l’apparenza dello scarto. Disturbante, purtroppo, la versione italiana, benché curata da Pier Paolo Pasolini [i] e Dacia Maraini, poiché doppiata da gente che non ha mai fatto dizione (e si sente), che tradisce l’aspetto reale inficiandolo di dialetti e cadenze che con la città di New York non hanno nulla a che fare. A livello teorico, infatti, il doppiaggio scelto dal poeta è corretto, visto che anche gli attori non sono professionisti, ma il senso di realtà estrema che il regista vuole ottenere, raccontata da queste voci italiane, ne fa perdere proprio la sua potenzialità. Decisamente meglio seguire il film in lingua originale. Strepitosa è l’interpretazione del travestito Holly Woodlawn, la vera stella di questo film, eccezion fatta ovviamente per Joe Dallessandro, che non recita mai, e che sebbene non riesca nemmeno ad essere completamente se stesso, risulta ugualmente necessario a questa trilogia, per il solo fatto che si lascia costruire addosso una serie di situazioni al limite del paradosso, a metà strada tra il grottesco ed estenuante mondo della droga ed il suo contrappeso, la deriva verso il rifiuto. Entrambi i loro personaggi si equivalgono sulla bilancia della rappresentazione della vita, lei votata alla vita e che deve controbilanciare l’autodistruzione del suo uomo, confluendo nella stessa sorte, che li vuole condannati ad accettare la condizione nella quale si trovano. Attori che giocano con le loro realtà, nelle quali s’impastano, dalle quali emergono, nelle quali tornano. È questo uno dei valori fondamentali di questo lavoro. Divertente e (forse) sincero, ha punte levate e picchi d’eccesso in perfetta armonia con lo stile del regista e della factory, quella di Andy Warhol (in veste di produttore), che lo circonda ed alla quale tutti, in quegli anni, aspiravano. Un documento storico, assieme a tutta la trilogia, in grado di cambiare il modo di fare cinema, senza riuscire a farlo veramente (senza cioè rispettare la maggior parte delle regole grammaticali che esso richiederebbe). Proprio per questo, una pietra miliare, non solo del cinema underground, poiché da quest’immondizia alla fine, tutto è stato sottratto e tanti registi, più in là, hanno alla fine affondarci le mani dentro. Il titolo del film fa riferimento ad una poesia di Allen Ginsberg, uno dei fondatori del movimento beat, del quale anche altri versi vengono citati nel film, dalla ragazza in cerca di lsd. Quando la pellicola uscì nelle sale, l’attrice Holly Woodlawn non potette partecipare alla prima poiché in carcere per una delle tante storie di tossicodipendenza. Vietato ai minori di diciotto anni, in Italia uscì solo nel 1974.

 

 

Bucci Mario

        [email protected]



[i] Paolo Mereghetti. Dizionario dei film 2000. Baldini & Castoldi