Calore.
Paul Morrissey. 1971. U.S.A.
Attori: Joe Dallesandro, Sylvia Miles, Andrea Feldman,
Pat Ast.
Durata: 100’
Titolo
originale: Heat
Hollywood. Un motel diventa
teatro dove strane figure si incrociano e qualche storia sembra aver inizio. E’
questo il caso di Joey Davis, ex attore della televisione in cerca di una
carriera come cantante, che per non pagare troppo l’affitto si concede alla grassa
proprietaria fino a che non conosce Sylvia, ex attrice famosa e madre di una
ragazza con un figlio e diversi problemi psichici. Sylvia decide di farlo
vivere con lei nella sua lussuosa villa, ma la figlia, pur di rovinarle la
vita, fa di tutto per adescare Joey, interessato invece ad essere mantenuto da
Sally la quale gli ha anche promesso di rilanciare la sua carriera. Quando Joey
decide di interrompere la relazione, la donna cercherà di ucciderlo, ma
scaricandogli addosso una pistola senza colpi.
Ultimo appuntamento della
trilogia pensata, scritta e diretta dal regista Paul Morrisey, uno dei
personaggi più atipici dell’intero sistema cinematografico. Ancora una volta
protagonista è il suo attore feticcio Joe Dallessandro, questa volta nei panni
di un arrampicatore di perdente natura che cerca di risalire la china dello
spettacolo affidandosi ad una donna, l’ottima Sylvia Miles, con più problemi di
lui (una figlia pazza con un bambino, quattro matrimoni falliti e una serie di
debiti ai quali non rinuncia pur di mantenere alto il suo standard di vita).
Dotato di uno sviluppo dei mezzi tecnici superiore ai precedenti lavori della
trilogia (riconoscibile già dai titoli di testa, questa volta inseriti sulle
immagini) il film gode anche di una storia tutto sommato più compiuta, senza
rinunciare ai caratteristici personaggi colorati e provocanti che hanno
caratterizzato l’intero percorso di Morriseey (la coppia incestuosa di fratelli;
la libidinosa proprietaria del motel). Se il primo episodio, Flesh (1968), trattava della
prostituzione, ed il secondo, Trash
(1970), della tossicodipendenza, il terzo ed ultimo capitolo sembra mettere
entrambe le cose sulla cima delle colline più alte di Hollywood, dove alla
prostituzione si associa appunto la (tossico)dipendenza da un sistema, quello del
cinema e della televisione, al quale sia Sylvia che Joey non vogliono
rinunciare, a dal quale gli altri personaggi sembrano affascinati o sottomessi
(la padrona del motel o la copia di fratelli incestuosi). Dotato di una
maggiore attenzione alla grammatica cinematografica, il film perde molto delle
caratteristiche lanciate con il primo episodio (soprattutto nel montaggio) e
sebbene dia l’impressione di guadagnare qualcosa, in realtà sembra addolcirsi,
perdersi proprio alla ricerca di una maggiore linearità della successione delle
immagini. Certo, a fare da contrappeso c’è sempre dall’altra parte la storia,
carica di personaggi e fatti che non rispettano assolutamente la grammatica
ufficiale delle sceneggiature hollywoodiane, ma senza quella verve così
radicale che aveva caratterizzato il primo lavoro, qualcosa sembra essersi
persa per strada. A differenza delle prime due pellicole, qui non siamo più a
New York, ma in California, anche se la differenza non sembra tanta poiché ad
un mondo autodistruttivo come quello rappresentato nella Grande Mela,
corrisponde un mondo distruttosi già da tempo, come il mondo delle star
decadute che aspirano ancora al cielo, spinte da una luce egoistica e
fondamentalmente fredda (l’abbandono di Joey) e disperata (la rabbia di
Sylvia). Rimane comunque il più divertente della trilogia, anche se non perde
la sua crudezza ed il suo pessimismo di fondo. Prodotto ovviamente da Andy
Warhol, il film è anche una rilettura grottesca del classico Viale del tramonto (1950) di Billy
Wilder.
Bucci Mario
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