Full metal jacket. Stanley Kubrick. 1987. G.B. - U.S.A.
Attori: Matthew
Modine, Adam Baldwin, Vincent D'Onofrio, Kevin Major Howard, John Terry, R. Lee
Ermey
Durata: 116’
Stati Uniti. Parris Island. South
Carolina. United States Marine Corps. Un gruppo di ragazzi viene addestrato dal
rude ed isterico sergente Hartman. L’obiettivo è di maturarli per il Vietnam,
rendendoli delle macchine da guerra, degli assassini impeccabili. A seguito del
duro allenamento e delle continue violenze psicologiche del sergente, il
soldato semplice Palla di lardo si suicida prima ancora di partire per il
fronte. Terminato il corso, tra i militari che partono c’è anche il soldato
Joker, reporter di guerra. Una volta giunti sul posto, l’intera truppa è
convinta che durante il Tet, il capodanno vietnamita, non ci saranno sorprese. In
realtà gli attacchi vietnamiti proseguono. Joker si addentra nel fronte per
fare un reportage giornalistico fino a che non arriva nella città di Hue, dove
bisogna fare strada. Messo sotto scacco da un cecchino, ciò che resta di un
gruppo di militari riesce ugualmente ad occupare il palazzo dal quale sparava.
Scoprono che si tratta di una giovane donna vietnamita. Toccherà proprio al
soldato Joker darle il colpo di grazia.
Ispirato al romanzo The short timers di Gustav Hasford, il
film di Kubrick è uno dei migliori manifesti antimilitaristi mai portato sullo
schermo. Secco, diviso in due tronconi (formazione e azione), sarcastico ed a
volte sfacciatamente diretto (reportage organizzato dal soldato Joker), il film
entra nella guerra aprendo gli occhi dello spettatore su frammenti di crudeltà
(le fotografie che fanno i militari affianco ai cadaveri coreani), di violenza
e assurdità dei conflitti militari (il simbolo della pace e la scritta nato per uccidere). Liberandosi dalle
dinamiche del potere che lo avevano ispirato per la stesura di un altro grande
progetto antimilitarista com’era stato il film Orizzonti di gloria (1957), Kubrick sceglie ancora una volta di
scendere al fianco dei militari, sul loro territorio, dissacrando il loro
linguaggio, rendendo aberrante ogni loro singolo gesto, inumidendo di odio ogni
loro pensiero o comportamento. Hartman che dopo pochi minuti guarda in camera e
grida, in realtà ammonisce il pubblico con il suo “Qui tu non riderai, non piangerai, qui si riga dritto e basta, ti
faccio vedere io…” prendendo le distanze da una serie di film (alla John
Wayne sembra voler dire lo stesso regista) e mettendo in guardia lo spettatore
su quanto passerà da quel momento in poi sullo schermo. Tutta la prima parte
del film (i primi quaranta minuti) è concentrata sull’addestramento e la voce
che più si sente, che assorda e grida, è proprio quella del sergente Hartman,
in un processo che sembra voler parlare di lavaggio mentale militare, urlato e
umiliante, spartano e cameratesco, avvilente e massacrante. Proprio la figura
dell’istruttore, esempio del potere manipolatore e guerrafondaio, ricorda
quella del poliziotto penitenziario de Arancia
meccanica (1971), dove ancora una volta a parlare era un potere che aveva bisogno
di alzare la voce per sottomettere il singolo. Tornando alla pellicola, tutta
la seconda parte è davvero impressionante, meno iperreale e più diretta di Apocalypse now (1979) di Francis Ford
Coppola, soprattutto grazie alle scenografie (perfette) che Anton Furst ha
realizzato negli studios inglesi, senza dunque ricorrere all’ambiente reale dal
quale partì Coppola per raggiungere il suo iperrealismo bellico. Ma Full metal jacket è anche meno
compiaciuto di Platoon (1986) di
Oliver Stone, perché il film di Kubrick raggiunge la sua iperrealtà solo
attraverso la schietta crudezza dei fatti, già dai p.p. dei militari che si
lasciano rasare la testa, senza entrare troppo nelle dinamiche relazionali dei
protagonisti, senza cioè produrre una vera struttura drammaturgica, ma
osservando da dentro tutto un processo che non può essere scisso dalla
preparazione (forma mentis) che anticipa l’evento bellico. Da questo punto di
vista, ancora una volta, il film di Kubrick non può essere visto per quello che
racconta, ma solo attraverso quello che dice. Negli occhi dei marines
kubrickiani brilla un minimo di vita che presto viene spenta (è questo anche il
significato del suicidio di Vincent D’Onofrio) una volta che questi sono
trasformati in macchine, automi da guerra. Sceso sul territorio di guerra,
Kubrick abbandona ogni manierismo, lascia per la strada la maggior parte dei
topos del genere (stoniani): non c’è
scontro fra culture, ma c’è l’analisi di un’unica cultura, quella americana, in
grado di massacrare un popolo e tornare a casa cantando le canzoni di Topolino.
In un processo di bilanciamenti e pesature, ad ogni sguardo corrisponde
l’atroce pensiero della morte, ad ogni battuta goliardica corrisponde la
sofferenza di qualcuno, dietro ogni carrello od ogni inquadratura si nasconde
l’orrore senza giustificazione: la violenta natura umana. Più che un film di
guerra dunque (ed in questo è più vicino a Coppola che a Stone) si tratta di un
film sull’uomo, svestito di significati narrativi e rappresentante soprattutto
della natura che lo muove, assassina, violenta ed omicida, psicotica e
devastante. Non è quindi la guerra l’orrore del mondo, ma gli uomini che la
combattono. Kubrick affonda a colpi di mannaia, anzi sarebbe meglio dire a
colpi di proiettili rinforzati di metallo. La voce italiana del sergente
Hartman (interpretato da R. Lee Ermey) è di Eros Pagni. A tale proposito si può
aggiungere che R. Lee Ermey era un vero sergente dei marines e che oltre a
recitare nel film fece parte del gruppo di consulenti militari del regista [i].
Bucci Mario
[email protected]