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Bossa Nova
Anno: 1999
Regista: Bruno Barreto;
Autore Recensione: adriano boano
Provenienza: Brasile;
Data inserimento nel database: 18-06-2000


Bossa Nova

BOSSA NOVA

di Bruno Barreto

Dalle prime riprese subacquee, alle quali si cerca di appiccicare un pretesto per legittimarle, la cui logica è a tal punto ridicola da far sorgere il dubbio che volesse essere parodistica, a cui si aggiungono in rapida successione il gruppo impegnato a tessere figure di tai-chi sul molo e soprattutto lo sfondo di monti della baia di Rio, lo spettatore ha la certezza di assistere ad un prodotto dell'agenzia per la promozione turistica, allarmata da voci come quella di Eduardo Galeano che si permettono di segnalare quanto segue.

In Brasile si ruba un auto ogni minuto e mezzo. Nelle ore più pericolose, che sono quelle della notte, i guidatori di veicoli a Rio de Janeiro sono autorizzati a saltare i semafori rossi. E non si rubano solo le auto. Uno scultore di allegorie di Carnevale sta ottenendo un grande successo fabbricando guardie virtuali per le imprese di sicurezza: sono manichini in uniforme di polizia, fatti in fibra di vetro, con micro-telecamere al posto degli occhi. Altre guardie in carne e ossa sparano, uccidono e poi chiedono. Molte delle vittime sono bambini di strada.
Il Brasile, come la Colombia, è un paese violento e ingiusto: il più ingiusto del mondo, quello che distribuisce più ingiustamente i pani e i pesci. Ventuno milioni di bambini vivono, sopravvivono, nella miseria.
Helio Luz, che fino a poco tempo fa era il capo della polizia di Rio, ha ricordato di recente in un'intervista che la polizia brasiliana non è nata per proteggere i cittadini: è stata creata nel 1808 per controllaregli schiavi. Gli schiavi erano neri, e neri sono anche oggi la maggior parte delle sue vittime.

Eduardo Galeano, Mani in alto, il manifesto 17 giugno2000, p.18

Nel film di Barreto non ci sono personaggi neri, se non il portiere della casa di Mary Ann, insegnante statunitense più che benestante con loft e vista sulla baia, una caratteristica che non abbandona mai tutti gli interni del film.

Ma c'era di che inorridire fin dalla dedica: Truffaut in salsa brasiliana prelude sicuramente a una dose di nostalgico sentimentalismo irricevibile da chiunque per la cascata di melassa che promette. Ed infatti mantiene le premesse per quel che riguarda lo sviluppo delle classiche storielle d'amore dei due fratelli: l'una a buon fine e l'altra invece deputata a vedere soccombere il desiderio del tenero sarto, destinato a risultare perdente, per rispettare gli schematismi della telenovela, fin dal primo scambio di cuffie; quello sì molto truffautiano per lo spostamento in ambito musicale del centro della sequenza, parte per un tutto che riemerge talvolta e nel finale per riannodare gli episodi legati al canto (che doveva fare da trait union), perso nell'attenzione parossistica per gli ambienti griffatissimi. Inopinatamente si privilegia la musica francese di Edith Piaff e Charles Trenet (come sempre quando il presente non soddisfa ci si rifugia in un age d'or collocato nel passato di una Rio risalente ai ricordi del regista di trent'anni fa), che s'insinua ruffiana, ma solo per filosofeggiare a vantaggio dello statunitense imbecille e chat-millantatore sulle analogie tra saudade e bossa nova brasiliana in opposizione al mambo colombiano (e di nuovo si riecheggia l'allusione di Galeano alle due nazioni sudamericane gemelle e rivali). Forse tra i due balli sceglierei il versatile tango, capace di esprimere il malessere dei primi emigranti in terra argentina e l'attuale indignata disperazione per la desaparecion: credo che non rinnegherebbe la churrascheria per costringere gli yankee a stipulare contratti lontano dal loro ambiente ideale, lo Sheraton. Infatti nonostante le (esagerate) macchiette che contornano i già poco credibili personaggi ed in particolare la caratterizzazione dello statunitense, si possono avanzare molti dubbi sul blando sarcasmo: piuttosto l'atteggiamento anticoloniale è sfumato, mantenendo pervicacemente lo sguardo rivolto verso la cartolina di Copacabana pur di non vedere la realtà. Il risultato è che il meltin' pot è ridotto ad improbabile ipotesi e si riduce l'invadenza degli USA a contrapposizioni coniugali di una coppia mista: non è difficile immaginare la trasposizione di dialoghi e screzi casalinghi tra Amy Irving e Bruno Barreto.
La telenovela si propone come sistema linguistico di riferimento del film e non si sa fino a che punto con intenti dissacranti - sporadicamente individuabili - e quanto invece scelta di codice per attrarre pubblico nel mercato interno carioca. Probabilmente infatti il film può solleticare il gusto di talune casalinghe brasiliane, incantate da battute sorprendenti per la serietà con cui vengono preparate come: "Hai gli occhi del colore della baia di Guanabara"; può darsi che l'operazione sia funzionale a sostenere l'orgoglio nazionale frustrato dai rilievi di Galeano - e non solo suoi - e mostrare la presunta vita dell'alta borghesia, come viene sognata da chi non vi appartiene, sia una non nuova iniziativa di vacuo successo, certo è difficile farsi coinvolgere dalla profusione di ambienti omologabili nello sfarzo e ripresi sempre con ampi terrazzi che si scambiano il ruolo con lo sfondo innocuo della baia, la quale per l'assillo della ripetizione diventa il vero soggetto edulcorato; una cartolina che va ben oltre il limite di sopportazione per la ripetizione seriale delle situazioni, degli ambienti e dell'intercambiabilità all'interno delle inquadrature dei singoli elementi, che in questo modo diventano tasselli di un unico possibile stereotipo di casa, davvero a questo punto imitazione del più ripetitivo standard mediologico: loft, eclettici oggetti collocati in uno schema, reiterato persino nell'occupazione di porzioni di spazio che blandiscon l'occhio con carezzevoli ondulazioni, finestroni inondati di luce proveniente dal ricorrente Pan di Zucchero. Un quadro proveniente dal più strabico sguardo rivolto al passato, poiché nessun dato consente di sistemare l'azione nella contemporaneità. Un vero incubo, la cui regolarità trasmette solamente claustrofobia e timore di non riuscire a uscire dalla trappola ordita dallo scenografo in combutta con il fotografo, che riescono a convincere che tutti gli appartamenti di Rio siano combinati in quel modo.

La garbatezza stucchevole dell'attempato avvocato ha momenti al limite della pochade nella confezione della camicetta, preparata dalle misure prese a spanne in ascensore, alternata a guizzi che se fossero stati coltivati con minor insistente intenzione di pilotare l'attenzione dello spettatore verso un momento clou che non viene mai, sarebbero state oasi di senso nel romanticume dozzinale: l'episodio più significativo in questo senso è quello in cui padre e figlio complici 'ascoltano' i vestiti: "I tessuti dicono quale vestito vogliono diventare" è l'unico istante che si discosta dai canoni della commedia televisiva, ingenerando attese di sviluppi evitati per seguire la vocazione alla frammentazione della bossa nova e per mantenere il tono superficiale di un ambiente popolato da gesti mai scomposti, dove tutti i disaccordi sono smussati, ma non dalla saudade, quanto da una tipica produzione teleglobo che addormenta le coscienza al punto che l'inserto musical immaginato a lezione, benché non sostenuto dalla struttura del film, non ottiene nemmeno l'effetto sorpresa talvolta dirompente in certi film del modello truffautiano (ad esempio il mimo che fischia in L'Argent de poche): rimane un isolato spunto impossibile da sposarsi con il vaudeville che impone lo spostamento nell'epilogo di tutti i protagonisti all'aeroporto, senza il grimaldello del sarcasmo almodovariano di Mujeres al borde de un ataque de nervios