The ring. Gore Verbinski. 2003. USA.
Attori: Naomi Watts, Matin
Henderson, Brian Cox
Durata: 115 min.
Quattro ragazzi che avevano
passato il weekend fuori casa, muoiono in circostanze misteriose dopo aver
visto una videocassetta. Rachel, giornalista e parente di una delle vittime,
decide d’investigare su quanto accaduto una volta insospettita dal fatto che
tutti e quattro i ragazzi sono deceduti allo stesso orario. Venuta a conoscenza
della videocassetta, anche lei la guarda e ne rimane sconvolta. Una telefonata,
ricevuta immediatamente dopo averla visionata, l’avverte che morirà anche lei
al termine del settimo giorno a partire dal momento in cui il filmato è finito.
Incredula di quanto le stia accadendo, si convince quando nota che la sua
immagine è deformata da qualsiasi macchina fotografica. Decide così di farsi
aiutare da Noah, ex compagno pratico di immagini video e dal quale ha avuto il
piccolo Aidan, bimbo introverso e con poteri paranormali. Tutti e tre finiscono
con l’aver visto la videocassetta. Risalendo alle origini del filmato, Rachel
ricostruisce la storia della videocassetta attraverso la storia di una
famiglia, quella di Anna Morgan, e dell’isola di Moesko, dove la famiglia aveva
una tenuta di cavalli. Alla scadenza del settimo giorno, la coppia riuscirà a
denunciare un omicidio compiuto molto tempo addietro, dove Anna Morgan aveva
ucciso Samara, la figlia adottiva, gettandola ancora viva in un pozzo. Scampata
quindi alla maledizione di Samara, Rachel troverà il cadavere di Noah,
percependo, grazie anche ai poteri medianici del figlio, che l’unico modo di
sopravvivere alla maledizione è di duplicare il nastro e farlo girare.
Interessante film di Verbinki,
che ha sdoganato una pellicola giapponese di Hideo Nakata tratta dall’omonimo
romanzo di Suzuki Koji. L’orrore, secondo il soggetto di questa pellicola, non
è tanto il fantastico, l’inconscio o il gore, quanto la diffusione
mediatica del maligno (funzionale anche alla diffusione della pellicola
stessa), un anello che compone una catena impossibile da spezzarsi
(l’impossibilità di salvarsi può svanire solo diffondendo il filmato). Meno
intellettuale di Videodrome (1983) di Cronenberg, più vicino a Poltergeist
(1982) di Tobe Hooper, il terzo lavoro di Verbinski è un pregevole prodotto
d’effetto che affronta il genere horror non senza una critica alla società che
abbandona i bambini alla televisione (dice Noah quando arriva nel posto dove
Samara era tenuta segregata “Non era sola” indicando un vecchio
televisore), stordita dall’uso della notizia di cronaca, non più capace di
amare i bambini (la follia della madre di Samara che, dopo aver tanto
desiderato avere una figlia, la uccide). Il bel finale (che si aggiunge ad un
falso finale tipico del genere, all’americana) tende, oltre che a condannare l’uso
e l’effetto della televisione, a non volerne individua una via d’uscita.
Particolarmente efficace da un punto di vista visivo (spaventosi i trucchi di
Rick Baker) è dotato di una buona fotografia e caratterizzato da un cinema
dell’immagine non troppo raffinato, ma efficace al contesto narrativo. La
storia è scandita in sette capitoli, quanti sono i giorni che restano a Rachel
di sopravvivere, funzionali alla tensione della pellicola. Samara è la tv che
non dorme mai, a qualsiasi ora è possibile premere il tasto d’accensione e
trovarla sveglia, pronta a raccontare (spesso) gli orrori del mondo (la triste
cronaca del privato soprattutto). Ma Samara è anche il fantasma di
un’adolescente che chiede aiuto. The Ring è, quindi, orrore che nasce
dal trauma adolescenziale. Ritorno al cinema per l’attore di teatro Brian Cox,
primo Hannibal Lector del cinema in Manhunter (1986) di Michael Mann, e
padre di Samara in questo film.
Non si salta dalla poltrona, ma
la tensione è ben distribuita e ad alto livello, grazie anche all’ipnotico
filmato della videocassetta, quasi fosse un film d’autore, dotato di un ottimo
senso estetico dell’immagine.
Bucci Mario
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