Vive l’amour. Tsai Ming-liang. 1994. TAIWAN.
Attori: Yang Kue-mei, Cheng
Chao-jung, Lee Kang-Sheng.
Durata: 119’
Titolo
originale:
Aiquing wansui
Taipei, 1994. Un venditore di
colombari (urne per ceneri funerarie) ruba una chiave d’appartamento dimenticata,
ancora inserita nella serratura. Senza casa, usa l’appartamento per passarvi la
notte. Un’agente immobiliare, conosce un giovane venditore ambulante e lo porta
nell’appartamento che dovrebbe vendere, per passare con lui la notte.
Hsiao-Kang, il venditore di colombari, tenta il suicidio, ma si ritrova a
spiare la coppia a letto. La sera dopo, i due ragazzi s’incontrano nello stesso
appartamento, anche Ah-Rong, il venditore ambulante, ha sottratto la chiave a
Mei-Mei e decide di trascorrervi le notti nell’attesa che quella si faccia
rivedere. Tra i due ragazzi nasce una sottile amicizia dovuta alla necessità di
dividere clandestinamente lo stesso appartamento. Una sera Mei-Mei, di ritorno
a casa, incontra nuovamente Ah-Rong e lo porta nuovamente a letto, nello stesso
appartamento. Dopo che questa se ne sarà andata, Hsiao-Rong proverà per un
attimo a prendere il posto di lei sul letto con Ah-Rong, il tempo di un bacio
mentre quello dorme. Mei-Mei, al mattino nel parco, piange.
Vive l’amour è un racconto d’amore marginale,
tenero e silenzioso, sofferto, che ha permesso a Tsai Ming-liang, autore di
questo bellissimo lavoro, di guadagnare un prezioso Leone d’oro a Venezia, ex
aequo con Prima della pioggia (1994) di Milcho Manchevski. Essenziale,
silente, il regista di Taiwan, alla sua seconda opera, sa perfettamente dove
posizionare la macchina da presa, fissa, perfetta in ogni inquadratura, dotata
di una fotografia eccellente e fine al realismo narrativo della pellicola. Dopo
le prime due sequenze, una che ha la chiave dell’appartamento in primissimo
piano e tutto il resto fuori fuoco, e la seconda che riprende il giovane
venditore di colombari riflesso nello specchio di un negozio, sul quale per un
attimo si avvicina con lo zoom, il talentuoso regista abbandona ogni altra
forma di presenza della regia, per lasciare che siano gli attori, la storia, ma
soprattutto i silenzi (incapacità comunicativa), a raccontare di questo
drammatico inno all’amore, fino all’ultima, lunga sequenza del pianto della
brava Yang Kue-mei. Una storia che si compone di soli tre personaggi,
indissolubilmente legati dai loro corpi (Ah-Rong vive il corpo di lei con
quella, Hsiao-Kang lo vive su se stesso). Amore marginale di vite ai margini
della metropoli (la telefonata di Mei-Mei, in secondo piano rispetto al
chiosco, dove alle parole di lei corrispondono i movimenti dei cuochi che
preparano due pietanze calde), appartamenti fatiscenti o lussuosamente spogli,
diversi modi di concepire la modernità (il venditore di colombari che lava i vestiti
nella vasca con l’idromassaggio). Un film che fa del realismo (intellettuale)
la sua forza narrativa (il regista tiene buona la caduta del giovane Lee
Kang-sheng mentre fugge in bagno per non essere scoperto nell’appartamento),
capace di associare amore e morte, sesso e suicidio, con un filo sottilissimo
di spietata ironia (masturbazioni in primo piano, tentato suicidio sventato dal
voyeurismo). Impropriamente giudicato come tediocre (tedioso e mediocre) da
quella frangia della giuria veneziana che aveva votato per l’altro Leone d’oro,
il lavoro di Tsai Ming-liang mi è parso invece molto bello, coraggioso ed
intenso come lo sguardo di Hsiao-Kang, prima di un sofferto bacio omosessuale.
Durante una sequenza che vede
l’attrice Yang Kuei-mei in bagno, un’anziana signora, seduta dietro di me, ha
commentato “Si dice che sono bei film questi, d’autore, ci vuole un
coraggio!” in perfetto dialetto della mia lingua.
Bucci Mario
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