Amores perros. Alejandro Gonzáles Iñárritu. 2000. MESSICO.
Attori: Gaël García Bernal,
Vanessa Bauche, Alvaro Guerrero, Goya Toledo, Emilio Echevarria, Jorge Salinas
Durata: 147’
Tre capitoli. Tre storie. Un
luogo: l’area metropolitana di Città del Messico e più precisamente ancora il
Distrito Federal. Il primo episodio Octavio e Susanna è una storia di
cani e di padroni che combattono, abbaiano e odiano per danaro; nel secondo, Daniel
e Valeria, si parla del declino di una bellezza (quella di Valeria dopo
l’incidente) e di una coppia ad essa legata; nel terzo episodio infine, El
Chivo e Luis, un barbone (killer professionista ed ex zapatista) sequestra
due ricchi imprenditori e medita di far ritorno a casa dalla figlia, lasciando
che questi due si ammazzino da soli.
L’esordio cinematografico di
Inarritu è una bomba senza precauzione di orologeria, spedita al cinema con
posta celere dal Messico. Tre storie di una ferocia e crudeltà disarmante,
montate come da tempo non si vedeva fare (in questa fase ha partecipato anche
il regista). Sequenze diluite, punti di vista e posizioni diverse dei
personaggi che s’incontrano solo in un tremendo incidente frontale. Un film di
cani (i volti, le posizioni, i movimenti rimandano tutti a comportamenti ed
immagini cinofile) che abbaiano, mordono, soffrono o hanno sofferto, per
raccontare la storia più moderna del Messico che, alla fine, deve ripartire da
una nuova marcia verso la capitale, una volta che tutti si sono uccisi fra di
loro (lo sguardo esterno della città nei fotogrammi finali, il passo di El
Chivo). Una fotografia perfetta (Rodrigo Prieto) ed un cast interessante e
bravo (il primo episodio è qualcosa che va oltre l’adrenalina) per un lavoro
che spesso appare simmetrico (cani e uomini si sbranano fra loro, divisi per
branchi, nella topaia di El Chivo) ma mai dissonante (la coppia d’imprenditori
del terzo episodio rimanda a quella dei cani da combattimento del primo). La
sceneggiatura di Guillermo Arringa spesso sembra dare allo spettatore quello
che si aspetta ma non è così (il buco nel pavimento è un esempio di straziante
suspence), il montaggio audio-video disarma la fantasia, spiazza e soprattutto
convince e soddisfa. Interessante anche la relazione tra il titolo (Amori
cani) e la pellicola stessa, dove in realtà non s’intravede un solo
frammento d’amore (tutto sembra necessario e mai veramente sentimentale, tanto
che anche un bacio può essere visto solo come una via di fuga e la salvezza di
un cane è spesso necessariamente legata alla morte di altri). Camera da presa
sempre a spalla, nessun carrello, quasi nessuna panoramica, il cinema che
Inarritu ha in mente è fatto d’altri movimenti. Città del Messico sembra non
esistere nemmeno per quanto è trascurata la sua immagine, taglio basso delle
inquadrature e presenza negli esterni di sole automobili (il via vai della
città) e luoghi che spesso a nessuno capiterebbe di vedere (la rivendita delle
auto rubate, piscine per combattimenti fra cani, la baracca di El Chivo). Un
esordio grandioso, se si tiene conto della lunghezza del film e del fatto che
non si riescono a staccare gli occhi dallo schermo. Impossibile da raccontare,
necessariamente da vedere. Essenziale la frase del gestore di scommesse
clandestine, nelle sue parole “Il mondo è fatto a scale, c’è chi scende e
chi se la prende nel culo” nessun accenno alla possibilità di una risalita,
è il fallimento del sogno Messicano. Per ricominciare, sembra dire Inarritu,
bisogna ripartire dalla morte dei branchi e dal riconoscimento degli errori
compiuti dai rivoluzionari.
Bucci Mario
[email protected]