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The experiment - Das experiment
Anno: 2002
Regista: Oliver Hirschbiegel;
Autore Recensione: Mario Bucci
Provenienza: Germania;
Data inserimento nel database: 04-12-2003


La grande guerra

The experiment. Oliver Hirschbiegel. 2000. GERMANIA.

Attori: Moritz Bleibtreu, Christian Berkel, Oliver Stocowski, Justus Von Dohnànyi, TimoDierkes

Durata: 114’

Titolo originale: Das experiment

 

 

Tarek, giornalista e tassinaro, decide di partecipare ad un esperimento per la ricompensa di 4 mila marchi. Oggetto dell’esperimento è lo studio della condizione carceraria, monitorata 24 ore su 24,  al quale è neccesaria la partecipazione di otto secondini e dodici detenuti. Selezionato dal computer per fare la parte del detenuto, Tarek si ritrova a passare quindici giorni in gabbia con altri due che hanno aderito all’esperimento. Dopo i primi due giorni nei quali un po’ tutti mostrano ancora insicurezza riguardo al da farsi, le venti cavie umane incominciano ad assimilare meglio il proprio ruolo. Motivo di riuscita della fase d’immedesimazione è il conflitto che mota tra la testardaggine di Tarek di fronte all’esperimento e la crescente follia dell’ordine di Berus, rappresentante più autoritario della fascia dei secondini. Tra i due incomincia una guerra dapprima psicologica ed infine fisica che sfocerà in tentativi di ribellione dei detenuti e prove di forza e massima reclusione da parte dei secondini. Perso di controllo dell’esperimento, anche i medici saranno risucchiati in una spirale di violenza.

Film bruttino su una bella idea che nasce da un pessimo comportamento dell’uomo: la reclusione. Motivo di disappunto sulla riuscita di questa pellicola è proprio la sceneggiatura, tratta dal romanzo Black box di Mario Giordano, che sfrutta i cliché dei film e delle storie di detenuti senza apportarvi novità (nessuno cambia il proprio carattere da quando è introdotto nell’esperimento, i personaggi restano limitati in ciò che sono sin dall’inizio) e soprattutto rincorrendo quella necessità emotiva, quella tensione narrativa che si mostra, sin dai primi attriti, come falsa e innaturale. Senza un modello di riferimento, la macchina da presa sfrutta solo le potenzialità dell’illuminazione (quasi tutta la pellicola è girata nell’interno della prigione) e sembra dimenticarsi il proprio ruolo all’interno del contesto narrativo. Macchinoso e non esaustivo il duplice rapporto tra libertà e segregazione, rappresentato dalla figura della donna che s’innamora di Tarek, un personaggio senza carattere e ruolo. Poco risalto, infine, è dato alla black box cui fa riferimento il titolo dell’opera dalla quale è tratto il film, quella oscura scatola che è l’immagine della segregazione e che in realtà, nella pellicola, sembra il male minore. Due citazioni su tutte, forse involontarie: Taxi driver (1976) di Martin Scorsese (all’inizio del film attraverso la partecipazione all’inquadratura delle luci della notte, oltre che al riferimento diretto al lavoro di Tarek) ed il cinema di Kitano (davvero?) con Tarek che ferma la lama di Berus così come Beat Takeshi ha fatto in Boiling point (1990), oltre alla conclusione sulla spiaggia, la cui fotografia è forse il simbolo del cinema del regista nipponico (l’immagine che sfuma sui corpi di Tarek e la ragazza seduti sulla sabbia). 

 

 

Bucci Mario

        [email protected]