In questo periodo si assiste a un uso ogni volta lievemente diverso della opzione documentaristica della fiction; nel cinema italiano questo avviene sempre con sfumature personali, ogni volta lievemente fastidiose per motivi diversi, perché l'operazione di ridurre fatti e documenti alle esigenze di spettacolo per esaudire alla duplice necessità da un lato di rispondere alla "fame di memoria" (sia come revisionismo, sia come recupero per resistere alle manipolazioni) e dall'altro di adeguarsi a una passione per il buon prodotto documentario godibile anche dal punto di vista della ricostruzione e nei casi più seri di esposizione del proprio utilizzo del mezzo, conduce gli autori a usare spezzoni di repertorio, sequenze famose inserite nel testo o costruite in modo allusivo o girate di nuovo come cloni, oppure a esagerare un aspetto che connota sì la loro opera, ma così facendo sottrae il valore documentaristico senza aggiungere nulla alla fiction più banale (Buongiorno, notte), o - nei casi peggiori - riducendola a pretesto per imporre come pensiero unico la ricostruzione di eventi utili ad accompagnare personaggi stereotipati ridotti a macchiette (La meglio gioventù). Ne avevamo parlato a proposito del film di Mihaileanu Les Pygmées de Carlo, ora corre l'obbligo di citare i film presentati da mostri sacri (e meno) del cinema italiano negli ultimi mesi, magari mettendoli a confronto con opere straniere, come il film di Gus Van Sant, Elephant, che sembra provenire da un'altra galassia se confrontato ai balbettii nostrani.
Elephant contiene la tensione del racconto introspettivo che vorrebbero Giordana e Bellocchio, ma che non riescono a ottenere perché imbevuti di dramma borghese, mentre il regista americano, quando documenta la determinazione dei due ragazzini, lo fa con una sola inquadratura dal basso, come se fosse una soggettiva del piano di sterminio steso sul tavolo. Però questo è preparato dalla lunga sonata al piano, terribile sotto ogni punto di vista, dal giochino al computer, dall'unica notte documentata dal film che per il resto si svolge tutto in un arco di tempo limitato a pochi minuti e tutto concentrato claustrofobicamente dentro la scuola, a parte la breve uscita dell'alter ego biondo del regista e alla serie di foto in esterni, anche quelle prive di spontaneità. In quella notte ha racchiuso l'introspezione, mentre il resto è studio sociologico fatto fiction, reso narrazione dalla mdp che pedina incessantemente, incapace di fermarsi, di inquadrare schiene e nuche che vanno in non-luoghi, percorrono corridoi che uniscono classi e aule svuotate di senso e nozioni e lezioni, pertanto sono non-corridoi che non uniscono nulla e pertanto possono essere solo percorsi ininterrottamente; mense dove il cibo è sintetico, come il gusto, liofilizzato e quindi sono non-mense. Una realtà che non è più tale e quindi è virtuale, come il giochino in cui si spara nella schiena a tutte le sagome che il caso propone.
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Per Van Sant è inutile fare ricerche d'archivio (non lo aveva fatto nemmeno lo strepitoso Moore) come è costretto Benvenuti dalla materia sfuggente e secretata: il documentario si dipana mentre nello spettatore aumenta l'angoscia per essere stato gettato dentro quei corridoi e in questo i meccanismi e le tecniche della fiction aiutano, perché la mdp diventa una falsa soggettiva del nostro pedinamento di quei dead men/women walkin', che sono stati posti in rilievo all'inizio stagliandoli con un sapiente uso del grandangolo (a camera rigorosamente fissa: l'unico momento di immobilità) che riprende la massa, la contiene nel campo dell'inquadratura, ma poi facendo comparire all'improvviso molto vicino e completamente a fuoco un personaggio, lo ritaglia dal resto, rendendolo soggetto sensibile.
Diventa una storia... in assenza di plot; almeno finché non diventa vittima, e questo gioco avviene con tutti i ragazzi finiti nel mirino, fatti emergere almeno una volta con l'uso del grandangolo, persino il direttore ci viene proposto la prima volta, facendolo entrare in campo mentre assistiamo alla telefonata del biondo che innesca il conto alla rovescia. Nulla di tutto ciò è apprezzabile nel modo di raccontare di Giordana, che ha esasperato le pecche de I cento passi, senza salvarne i pregi (rileggete quello che scrivemmo a proposito del film su Peppino e vedrete che c'è già tutto il gusto della macchietta, la superficialità, l'adesione all'immaginario comune). Manca totalmente la voglia di intervenire linguisticamente sul fatto, rendendolo così più chiaro, proponendo, solo con il modo di narrarlo, un diverso punto di vista (che nel caso di Elephant diventa quello immediatamente alle spalle): pensate se La meglio gioventù avesse potuto avvalersi in sceneggiatura di quegli intrecci su uno stesso momento e uno stesso luogo, inquadrato in sequenze successive e magari distanti tra loro, quale gamma di sfaccettature avrebbe permesso, quante diverse posizioni avrebbe potuto documentare, senza fermarsi a quella ufficiale che già sempre ricostruisce i fatti. E un tema come il rapimento Moro! come avrebbe potuto avvalersi di questa vecchia intuizione alla Rashomon, che Van Sant semplicemente aggiorna nel mezzo di ripresa.
Benvenuti tenta di adottarla un paio di volte e soprattutto nel finale, dove tira le fila del molto materiale estratto dall'oblio, però manca la stessa immediatezza che sia Moore nel suo docufiction, sia Van Sant nel suo fiction-docu sono stati in grado di comunicare semplicemente usando il linguaggio cinema e non il romanzo storico ottocentesco che permea gli italiani, sempre percorsi dalla sindrome di Tommaso Grossi al cospetto della storia da tradurre in romanzo per il popolo.
Prendendo spunto dall'imbarazzante fiume di immagini di Giordana, che glissa sugli snodi ancora aperti della storia della nazione degli ultimi 40 anni, per privilegiare il peggio di quanto ci viene costantemente ribadito in ogni rievocazione più o meno seria della storia italiana, possiamo far interagire quella mole di sequenze diacroniche con la citazione iniziale di Tagliapietra: Giordana sfugge a quel riscatto del suo pedagogismo derivante dal "contenuto morale", perché apparentemente sembra gli interessi adottare la vicenda personale per ricostruire una stagione di ribellioni e riflussi, in realtà è vero il contrario: propone la sua lettura delle uniche possibili evoluzioni di una interpretazione della realtà di quegli anni per dare vita ai personaggi, che così diventano pure maschere, marionette - non burattini - prive di vita, perché i fili si ingarbugliano nella velina ufficiale di come eravamo secondo le ricostruzioni ufficiali, non solo senza aggungere nulla, ma producendo una ulteriore falsificazione non legittimata da esigenze spettacolari, ma che invece deriva dal bisogno di adeguarsi a un linguaggio televisivo contemporaneo che mal si adatta alla vicenda.
Paradossalmente avrebbe ottenuto maggiore effetto straniante, per mantenere la distanza dal racconto, se avesse adattato man mano il racconto al linguaggio cinematografico/televisivo dell'epoca affrontata; invece così l'impressione è quella dell'interpretazione premasticata e ammannita al popolo che non sarebbe in grado di elaborare nessuna personale analisi dell'evoluzione del collante per una nazione che abbia attraversato quel provincialismo, se l'autore non avesse già operato per indirizzare verso una spiegazione per nulla destabilizzante.
Il problema nel film di Bellocchio è che getta lì la battuta sul linguaggio (l'unica decente del film: "Pensa se ci dovessero governare persone che scrivono in questo modo") e poi non si accorge che proprio su quello avrebbe potuto giocare per individuare il problema comunicativo alla base della sconfitta delle Br, un problema che ricordo fu sviscerato in splendide lezioni di semiologia all'Università di Torino da Ferrario già nel 1981 e che corre sul doppio binario: la loro incomprensione della evoluzione della società italiana e l'impossibilità di comunicare alla stessa società su cui avrebbero voluto intervenire così da protagonisti.
Rispetto a Giordana, che ha rinnegato il bel lavoro fatto ne I cento passi proprio sul recupero delle forme linguistiche dei tardi anni settanta, Bellocchio invece si sforza di adattare l'occhio al cinema di interni di allora senza però nemmeno lontanamente avvicinarsi alle vette fassbinderiane; il problema diventa increscioso quando applica manieristicamente l'intuizione di dare un immaginario "sovietico" al sostrato culturale della brigatista: molto distante dalle attrazioni ejzenstejniane assistiamo invece a banali sfridi, un'accozzaglia che fa il paio con la confusione di piani narrativi ciascuno parallelo e giustapposto all'altro senza un criterio unitario, quasi che ogni attore interpreti il suo film e gli spezzoni come una girandola a ingenerare ulteriore spaesamento involontario, anziché dare unità diventando raccordi capaci di annodare anche la Storia all'interno della quale si svolge la storia.
Entrambi questi obiettivi - linguaggi diversi e loro integrazione a creare un testo che getti una luce attuale su quei fatti: unico modo per accendere una interpretazione - sono totalmente falliti nel film di Bellocchio, che deformando la percezione attraverso gli occhi della protagonista, non deforma solo la storia, seguendo un auspicio (la liberazione di un politico che era stato scaricato da tutti e aveva raccontato abbastanza per affossare un regime ben prima di Mani pulite) ma tradisce la ricostruzione, anche quella individuale, anche quella dietro alla quale si nasconde per dire le solite banalità di regime e nell'episodio del canto partigiano addirittura travisa questo uso del linguaggio in funzione allusiva.
Il legame con la tradizione partigiana, reciso dalla distanza della nuova generazione da quei riti svuotati, emblematicamente restituito dalla distanza dei giovani dalla tavolata fa uso di un linguaggio cinematograficamente arcaico, capace soltanto di affrescare santini e peggiora ancora la sensazione di vuota retorica con la sovrimpressione di due elementi che non si sposano minimamente come la lettera del democristiano - sempre quella alla moglie, per accentuare l'intimismo della pellicola, che però poi viene recepito come film politico - e quelle dei condannati a morte della resistenza (quanto più efficace sarebbe stata la canzone di Jannacci che in quel periodo si sentiva spesso trasmessa dalle radio di movimento). Non credo che Bellocchio sia interessato all'evento, riducendo il testo a banale intimismo ombelicale a cui ci ha abituato il peggior cinema italiano da anni. A questo proposito il confronto tra approcci italiani alla storia può proseguire con Benvenuti. Egli pur centrando la sua disamina su Pisciotta (e quindi su un personaggio, marginalizzando l'amico già protagonista per Rosi e Amato, e riprendendo invece Eriprando Visconti), riesce a dare respiro alla vicenda, a contestualizzare, a fare incazzare i fasci che sollevano un polverone subito come abbiamo denunciato con la rassegna stampa. Lo so: a Bellocchio non interessa la storia (e si vede), ma permettetemi di dire che anche a noi interessa persino meno assistere ai rimorsi presunti di Anna Laura Braghetti sotto pseudonimo, e - se possibile - interessa anche meno del video del regista di qualche anno fa sul suo figlioletto appena nato mostrato con le stesse luci e gli stessi tagli nella sua dimora. Cinema ombelicale appunto: potrebbe seguire il suo protagonista del finale di Salto nel vuoto, se non fosse così spocchioso da rivendicare senza vergogna: "non ho mai avuto bisogno di lavorare". È un cinema asfittico, prevedibile e pieno di maestri solo allusi, mai avvicinati nemmeno lontanamente. Sono invece ben presenti quelle potenzialità narrative in Segreti di stato di Benvenuti, con il quale Bellocchio condivide l'uso di materiali d'archivio.
I filmati d'epoca in Segreti di Stato risultano usati correttamente perché si parte da quelli e non si arriva, spingendoli quasi a forza nel testo come fa Bellocchio, poi già solo il fatto che la stampa piduista del nano marionettista si sia incazzata, rende il film su Pisciotta degno di essere imposto in tutte le scuole del Miur. Almeno insegna come si fa una ricerca di documenti e come si fanno dialogare tra loro per ottenere plusvalore da informazioni e personaggi onnipresenti. Se l'approccio intimista di Bellocchio improntato alle teorie di Massimo Faggioli è tipicamente borghese, il piglio di Benvenuti è figlio della sana "controinformazione" marxista (almeno quanto Ciprì e Maresco innestano sul "falso wellesiano" una realtà ancora più iperrealista dell'epoca esaminata, saccheggiando l'immaginario anarchico per ricostruire attraverso l'accentuazione e l'esagerazione sarcastica), che si documenta su infiniti materiali, su quantità di giornali e cinegiornali d'epoca inumane, anche per non cadere nel personalismo solipsistico dei grandi figli di poeti rinchiusi in stanze a lasciarsi permeare degli echi della storia e anziché raccontare quelli si abbandonano a descrivere come il loro essere borghesi permeasse quella loro esperienza.
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Benvenuti invece raccorda in modo un po' dilettantesco i materiali (la sequenza iniziale dell'onorevole o la figura inquietante dell'esperto di armi), però rasenta la perfezione quando ricostruisce sequenze non immaginate ma che trovano riscontro nei dati. Lo fa anche occupandosi del linguaggio, fin dall'inizio, inquadrando la mdp, come a dire che quella sua verità passa attraverso quel mezzo e quindi ha come unico filtro quel linguaggio, poi in realtà aggiunge altre scappatoie quando si accorge che il mezzo potrebbe falsificare: geniale è l'uso della lavagna, sembra una Domenica del Corriere dell'Istituto Luce, capisce che le immagini potrebbero produrre incomprensioni e quindi si affida alle parole di una "vera" inchiesta, aiutata da quei disegni che compongono il puzzle.
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E che la storia - in particolare quella italiana del dopoguerra - sia un mosaico dove tutti i tasselli vanno incasellati risulta ancora più esplicito in quella barocca sequenza finale dove le fotografie dei personaggi (un atto di accusa a un'intera classe politica che ha governato ogni ambito della società per 50 anni) vanno a comporre il mosaico: lo scudo crociato.
Ma altri spunti fanno ritenere il lavoro di Benvenuti corretto: il modo di riprendere il processo, come in Gostanza da Lubbiano o in Confortorio, gli dà una valenza che esula da quella proveniente dalla cronaca, poiché già solo in una delle poche inquadrature in campo lungo del film (e come sempre nel caso dei processi con dovizia di inquadrature dall'alto e dal basso - mai in asse - per restituire il senso di soggiogamento e di potere dato dalla situazione) si trasmette il senso dell'uomo in trappola e del complotto ai danni non solo di Pisciotta, ma anche della società italiana. Quello che viene descritto dopo è pura cronaca, ma il taglio di quelle inquadrature comunica già la notizia principale: "C'è del marcio nella versione ufficiale". La soluzione di Ciprì e Maresco è di inventarne un'altra, di versione ufficiale, ancora più incredibile.
Cosa manca allora rispetto ai lavori americani su Columbine? Nulla, piuttosto cosa c'è di troppo (oltre alla retorica inevitabile in questo caso e a quella componente didattica moralmente sana di cui parla Rousseau e che era dichiaratamente negli intenti del regista)? Due cose: la presenza del "non detto" omertoso non è mai componente del mistero da svelare, ma incombe come un retaggio ineluttabile. Anche se la motivazione del film proviene dall'esigenza di comunicare le nuove sconvolgenti rivelazioni sul caso, eppure aleggia sempre come protagonista principale che sappiamo fin dall'inizio rimarrà tale, quel qualcosa di sfuggente che rende queste inchieste sempre un po' monche, anche quando - come in questo caso - non cadono in facili agiografie e psicologismi (immaginate se a governare questa materia ci fosse stato uno che scrive le sceneggiature come Bellocchio). L'altra remora che zavorra la riuscita totale del bel film di Benvenuti è la ingombrante presenza dell'autore: c'è già la mdp, ci sono già i disegni e gli esperti intervistati, ma ci accompagna sempre anche l'autore, un passo indietro rispetto alla macchina, ma c'è e si avverte la sua mano che ci conduce sui suoi sentieri. Una presenza che non si avverte nel documentario su Mazar i sherif della bbc e che è molto più dirompente nella denuncia dell'orrore di quella strage. D'accordo: quello è un documentario a tutti gli effetti, mentre questa è una ricostruzione romanzata (anzi illustrata da bozzetti), ma la presenza dell'autore in questo caso diventa come una lezioncina professorale, fatta bene, ma troppo accademica.
Tutti questi film denunciano gli intenti didattici contenuti nell'esergo di Rousseau-Tagliapietra, ma a distanze siderali l'uno dall'altro, il che dimostra l'enorme potenzialità del genere fiction di illustrazione storica, senza riuscire a uscire dalla didattica ma nemmeno dall'affresco che saccheggia l'immaginario comune senza aggiungere nulla al cinegiornale di regime o a una controinformazione rigorosa - nel migliore dei casi (Benvenuti) - talvolta puntigliosamente segnata dall'inchiesta, perdendo di vista il bisogno di essere avvincente.
Per evitare questo pericolo di presenza autoriale forte ne Il ritorno di Cagliostro si scompone l'autore in molte fonti diverse e tutte false, ma legittimate dai "veri" critici Napoli e Sanguineti, che risultano i più fasulli di tutti: a comporre il puzzle di un'improbabile cinecittà sotto il monte Pellegrino sono chiamati i personaggi più surreali, eppure il risultato è quello di una ricostruzione accettabile dell'atmosfera e dello spirito degli anni impregnati di oscurantismo democristiano, quegli stessi di Portella della Ginestra. Il Cagliostro riesce con il grottesco a tal punto smaccato da oltrepassare gli attuali parametri di tolleranza e in quel modo ridisegna il linguaggio adottato: spostando su un altro piano le situazioni (i preti ballerini, l'atelier di scultori con il cazzo eretto in evidenza, i film sgangherati inventati di sana pianta) automaticamente rendono credibile un'italietta che da quelle ricostruzioni traggono nuova più vitale e sopportabile linfa, facendo dello sberleffo, della parodia (una trasposizione popolare nostrana degli skit dell'hip-hop?) delle porcate che fanno scuola attualmente trasponendole in un'epoca diversa, inesistente e quindi estendibile a qualunque epoca, in primis la nostra contemporaneità, la materia da comunicare. "Surreale la minchia", come dice il cardinale: questo è realissimo, solo ammantato di creatività: un mocufiction perfetto, che diverte e fa storia contemporaneamente senza bisogno di canovacci o scandali politico-storici. Le infinite citazioni (da Guttuso a Cenere) non disturbano, piuttosto stornano l'attenzione dal vetriolo puro rovesciato sul costume: forse questo è il limite, l'aver colpito in particolare il costume e l'insistente lungaggine che rende un po' ripetitivo il gioco, anche e soprattutto quando si abbandona il registro comico e si adotta una lettura seriosa di tutto quello a cui si è assistito fino a quel momento, per concludere con un ultimo ribaltamento dopo i titoli di coda. Il racconto si compone in realtà di un documentario in 16 mm a colori sulla Trinacria Film, i cui spezzoni salvati sono ovviamente in b/n e su questa ricostruzione fotografica doppiamente fiction, come se fosse un rapporto algebrico due fiction compongono un documentario.
Strutturalmente questo approccio plurimo renderebbe perfetto il testo, se anche le componenti serie mantenessero lo stesso accattivante modo scanzonato di raccontare la Storia, invece persino qui ritroviamo un po' di quel didascalismo dell'esergo. In compenso la cinefilia, i manifesti, le allusioni a Welles spostano di nuovo tutto sul piano della finzione, che però appare così esposta da rivelarsi "reale" passione cinematografica.
Come quella esibita da Bertolucci: emblematica è l'immagine che abbiamo catturato: di corsa, sporca - non patinata come le altre del film di interni - di movimento, di quel movimento che piaceva tanto alla nouvelle vague. Ecco: sarà un'immagine della citazione o della ricostruzione? Sarà davvero Band à part o è l'immagine duplicata da Bertolucci che non sta inseguendo un ricordo esistente ma un ricordo di un'emozione e non può far altro che rifarlo uguale? Questa è un'operazione fattibile sulle sequenze cinematografiche, non sulla realtà e Bertolucci è sagace, preparato e... sa fare cinema. Perciò stavolta la ricostruzione funziona per le immagini che i ragazzi della cinemateque hanno in testa e le ripropongono permeando il proprio microcosmo di fotogrammi e riferimenti e, purtroppo di giochi, adolescenziali e un po' scontati nel mondo barocco di Bertolucci.
Risulta comunque una ricostruzione di un modo di attraversare un periodo personalissimo e alto borghese, che non collima con tutto ciò che è stato il vento di ribellione, ma che ne pone in rilievo delle componenti, quelle nelle corde del regista. Si tratta di "documentare" un'epoca a futura memoria: non significa fare un'operazione didattica sul fatto se la rivoluzione sia un pranzo di gala o gettare una molotov (o un candelotto di dinamite come sarebbe nella citazione implicita di Sergio Leone), ma si tratta di invogliare i ragazzi a chiedere che le cineteche tirino fuori le copie di Freaks e di Mouchette, citati esplicitamente - anzi rimontati in parallelo a documentare una interpretazione cinefila datata 1968 -, o La chinoise (metà delle inquadrature di studio di testi e preparazione sono tratte di peso da lì) e L'Age d'or (il piede baciato vogliosamente), citati implicitamente, per aggiornarne una interpretazione e rendere Á bout de souffle l'anno di nascita di tutte le ragazze e non solo di Isabel, che evidentemente non può avere 9 anni, ma dice di essere nata nel 1959 proprio perché lo spezzone montato sulla sua affermazione è tratto dal film di Godard, che è il nume tutelare di tutta l'operazione. Noi, suoi estimatori da sempre, diciamo che è banalizzato e reso popolare, ma forse Rousseau sarebbe soddisfatto dell'operazione didattica. Meno riuscita la componente storicistica relegata alle ultime battute (a parte il fervorino sul Vietnam che sembra fatto per dovere), dalla pietra che sfonda la finestra - salvando dal suicidio neodecadente o tardocrepuscolare di una borghesia asfittica - in avanti che porta la strada in casa, la Storia nella storia, con la polemica su come ci si debba comportare in piazza, annosa e mai risolta questione: taluni apprezzano il fatto che lo spettatore subisce la carica degli sbirri che ci vengono addosso ancora adesso, continuano a caricarci dal 1968 e non hanno mai smesso; taluni pensano che sia un'appendice peregrina, visto che per tutto il film si fa puro kammerspiel e le uscite dalla casa sono ispirate solo dal cinema, unica evasione concessa (e anche questo potrebbe essere filologico di un periodo improntato all'estrema attenzione al linguaggio filmico, tant'è vero che il racconto prende avvio dalla vicenda di Langlois) e quindi inserirci il movimento vero e proprio sembra un contentino, un tributo da pagare marginale e perciò pleonastico. Sicuramente di quelli esaminati finora è il film che usa il testo filmico nel modo più corretto per ricostruire un'atmosfera di cambiamento (che può essere il maggio francese o qualunque altro sommovimento innanzitutto culturale), peccato che a farlo sia l'immaginario borghese di Bertolucci e che quindi sia infarcito di birignao e barocchismi che conosciamo e a cui lui non può sottrarsi proprio perché l'operazione non può che essere personale, esclusivamente autoriale a sancire la non obiettività delle esperienze eccitanti, degli onanismi personali (L'Angelo azzurro è arrapante?), dei giochi adolescenziali, ... di un ricordo. Della Storia è importante che rimanga la voglia (per i giovani) di andarsi a ritrovare il fotogramma di Top Hat o di Gilda, di Scarface o di Marilyn-icona che prende il posto di Marianna nel Delacroix sotto cui fare l'amore sulle note dell'emblema della Francia liberata: La Mer di Trenet (che ci azzecca?), confuso con Hendrix, Joplin e Morrison... una scelta musicale persino più risaputa e banale della banda visiva, ma che si combina bene con gli intenti di compendi, di bignami di storia a uso dei giovani. Ma davvero si sente il bisogno di fare manutenzione alla memoria se "ne regretez rien"?
E soprattutto: Keaton o Chaplin?
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