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I 100 passi
Anno: 2000
Regista: Marco Tullio Giordana;
Autore Recensione: adriano boano
Provenienza: Italia;
Data inserimento nel database: 12-09-2000


100 Passi

100 Passi

Sceneggiatura: Claudio Fava, Monica Zappelli e Marco Tullio Giordana Regia: Marco Tullio Giordana


Interpreti: Luigi Lo Cascio (Peppino Impastato), Luigi Burruano (il padre), Toni Sperandeo (Tano Badalamenti), Lucia Sardo (la madre Felicia)
Produttore: Fabrizio Mosca

Italia,
2000.

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Ombre e luci, più qualche penombra, nel film di Claudio Fava, Monica Zappelli e Marco Tullio Giordana.

Cominciamo dalle ombre: facile dire che "Le nostre idee non moriranno mai" è uno slogan che dovrebbe essere bandito da tutte le manifestazioni e di conseguenza dalle ricostruzioni, per manifesta menzogna. Soprattutto non dovrebbe mai chiudere un film, perché lo spegne definitivamente, ammantandolo di retorica: lo rende un'agiografia. Altrettanto banale ostracizzare lo sforzo di attribuire il motore di tutte le manifestazioni descritte al complesso di Edipo o ad altre trucide psicanalisi, un tentativo consueto nei film di Giordana (fin dagli inizi con l'odioso Maledetti vi amerò), qui esagerato dalla recitazione sopra le righe del padre di Peppino (Luigi Burruano); diventa ancora più insopportabile quando con l'Edipo si pretende di spiegare il ribellismo degli anni Settanta: è un atteggiamento datato, inficiato di pasolinismo maldigerito (in fondo Giordana è il regista di Pasolini un delitto italiano, presentato in apertura di Festival a Venezia cinque anni fa) e riduttivo per i tanti ancora irreconciliati con la società, ma che hanno risolto i loro conflitti adolescenziali con l'autorità paterna.


A questo schizofrenico modo di ideare le situazioni si collega anche una seconda figura di padre: macchietta involontaria dell'aparatnik di partito, di cui si è voluto esplicitare, ma come se fosse una verità, la posizione pretestuosa che è servita da alibi ai socialdemocratici di sempre per soffocare ogni autentico ribellismo fuori dal loro soffocante controllo: "Noi saremo sempre sconfitti, perché ci piace essere divisi". In quel periodo la divisione non era tra eguali, ma tra fieri poli opposti: modi di concepire il mondo lontanissimi dividevano il movimento di sinistra dal riformismo pciista e quindi questa è solo una frase ad effetto propagandistica a posteriori, valida per l'attualità di una coalizione che aveva già perso tutti i contatti con il mondo della contestazione giovanile libertaria e ribelle, nel film ottiene l'effetto di falsificare l'egregio lavoro compiuto nella costruzione del perfetto clima radiofonico.


E a questo punto possiamo elencare le note positive: le scelte musicali della Radiofreccia di Ligabue erano forse migliori (almeno Iggy Pop lo era) di quelle irradiate da Radio Aut, eppure uno dei momenti felici del film si prolunga dalle note di House of Rising Sun che inaugura la radio fino alla composita sequenza che affastella tutta una serie di momenti radiofonici: divertenti, scanzonati, altamente politici, di dibattito e di scoperta della sessualità e del femminismo, una radio dell'accesso come tutti in quel periodo ci sforzavamo di realizzare. Viva proprio perché improvvisata e proiettata allo scardinamento delle remore morali e allo scandalo dei benpensanti. Un momento efficace, che riesce a essere rovinato solo alla fine della lunga sequenza a causa dell'imperizia del ragazzo a cui è affidato l'arduo compito di porgere la battuta ("Se fai la voce grossa fai capire che stai male, non ti fai ascoltare, non ti fai sentire") più difficile del film, in quanto doveva rivelare le molte paure che attanagliavano tutti in quel periodo di potenti malesseri affrontati in collettivo, per sentirsi protetti da persone simili. E qui questo sentimento viene chiarito dalla figura isolata di Peppino, avanguardia lungimirante e sola nella sua lucidità.




Spesso il cinema italiano è debitore del leopardismo e questo film non ne è immune, però la nota positiva è che non è un riferimento accattone e attorcigliato nel suo epigonismo: da un lato esplicita questa sua eredità, ma dall'altro la interpreta per dare un ruolo al verso dell'Infinito, in modo che "Naufragar m'è dolce in questo mare" si inserisca nella sceneggiatura premiata al Festival, conferendo uno spessore al sacrificio del giovane. Quest'atmosfera lirica oltre ad adattarsi bene a quegli anni di attenzione alla poesia si collega ad altri momenti in cui frasi poetiche emergono, pronte ad essere raccolte. Una di queste sfiora la retorica ma la supera di slancio illuminando un preciso atteggiamento che mi svela nel ricordo l'intento di molti compagni di ottenere proprio quell'effetto: "Ricordare alla gente cosa è la bellezza". Notare il verbo: non insegnare o predicare, non imporre o spiegare; maieuticamente invece rammemorare qualcosa che è già compreso in sé, per natura, solo che è soffocato. Spezzato, obliato.

Come è un grido disperato quello che accompagna la morte di Peppino. Ed è bella la scelta di farlo scaturire dall'interno della sua macchina e per di più senza affidarlo a qualcuno di tangibile. Infatti è splendida l'idea di farlo nascere da una canzone che fu in quel periodo l'accompagnamento di molte radio "libere veramente": Summertime di Janis Joplin: lugubre, accorato, premonitore urlo di una cantante già schiantata dall'eroina all'epoca dei fatti. Riassume e simboleggia lo sgomento e la sconfitta di una generazione, la mia. Un urlo che promana dall'interno del film e ci viene addosso, fino a confondersi con l'esplosione omicida; le immagini non hanno la forza di seguire il climax della voce, ma la concitazione del montaggio, le luci guizzanti nella notte come le incrinature di Janis preparano quel lampo.



Un grido che la madre si nega. L'intensità del volto di Lucia Sardo (musa di Aurelio Grimaldi) è un altro dei pregi del film: contiene tutta la violenza contronatura di sopravvivere ad un figlio e tutto lo stoicismo di essere donna e madre in Sicilia. Quella sua faccia riassume e completa la galleria di volti accennata dal pittore (il vezzo di renderlo un Guttuso di provincia poteva esserci risparmiato?), quando con una certa efficacia ci viene esposta la teoria per cui le facce sono come paesaggi, e Majakovskij (altro riferimento preciso dell'epoca) è un fiume in piena. Citazione due volte azzeccata: una volta perché era il poeta più letto dal movimento giovanile 70s e un'altra perché la metafora del fiume in piena si adatta bene a Peppino e a quegli anni.

Gli aspetti discutibili si riducono sostanzialmente a quelli del messaggio politico, o meglio al modo subdolo con cui lo si media: davvero si sarebbe dovuta fare più politica e meno movimento? Così sembra predicare a posteriori il regista di La caduta degli angeli ribelli attraverso il fantasma di Peppino Impastato, che da quella condizione oracolare può permettersi di asserire qualunque cosa. É una posizione da un lato fastidiosa, perché probabilmente noi di allora, e dunque lo stesso eroe, non avremmo accettato di dover sopportare una figura così falsificata e dall'altro piacevole, perché gli infonde un'autorevolezza che nessuno avrebbe mai attribuito a un giovane extraparlamentare: la morte eroica rende inconfutabili e soprattutto indica un simbolo da seguire. Perciò la sua figura galleggia tra l'azzeccato ritratto e il santino che per tutto il film ci parla dall'oltretomba, perché noi sappiamo che l'hanno suicidato più di vent'anni fa due anni dopo Baader, però non sappiamo se avrebbe parlato con le frasi che Giordana gli fa dire, quando non agisce nel modo in cui ha agito senza poter essere falsificato.
Infatti è sicuramente vero che "non aspettano altro che ci rifugiamo definitivamente nel privato"; e forse per questo è opportuno che la fievole voce di Expanded Cinemah resista tra Tam-Tam e Cinematografo.it.