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E proprio da Ricchezza nazionale è il caso di intraprendere questo itinerario tra le "nostre" foreste abbattute.
Oppure se si preferisce intraprendere il percorso privilegiando le conseguenze tangibili dell'accantonamento della sintonia con la natura è il caso di affidarsi a La Costa del sole, titolo italiano del film di Sayles, che non appare nella pellicola, perché nell'originale il titolo è compreso nella targa di un'auto ospite del motel al centro del plot, emblematico di come tutto ormai orbiti nella mortifera cultura dell'automobile.
«Sarebbe un'idea mettere una miniera d'oro nello spazio, ma chi mettiamo al posto degli indiani?»: è l'ultimo assillo dei narratori-giocatori di golf.
Mentre secondo noi la vera domanda è: ma davvero abbiamo bisogno di ricercare una tradizione (o addirittura di entusiasmarci per una ormai consumata da riesumare, solo perché si contrappone ai simulacri vuoti del capitale)?, per quanto naturale, come quella dei pigmei che hanno i mezzi etnografici per difendersi; per quanto abbia in sé gli anticorpi per sbugiardare le trame degli interessi biechi del capitalismo, come il sodalizio tra il candido anestesista e Angela Basset. Davvero non possiamo fare a meno di cercare un fondamento da contrapporre al surrogato di metafisica che ci stanno cercando di propinare sotto la patina neo-liberista?
Ci sembra più sana la proposta iniziale di Sunshine State: brucia un vascello falso, filtrato e svuotato dei suoi significati ribelli dalla pro loco, compreso il vessillo della filibusta; brucia per opera di un ragazzino nero che non sa il motivo per cui si ribella col fuoco alla ricerca di una comune forma di tradizione: è un istinto, tanto che di fronte al vuoto pneumatico rappresentato da questo occidente (e in particolare da questa America) persino un pirata di legno bruciato diventa nelle parole di un giudice "dignità comunitaria profanata". Un ribaltamento di ruoli che denuncia il processo di conglobamento di tutto, qualsiasi testimonianza culturale può tornare utile per il maquillage di un mondo putrescente.
I due film ci sembra che vadano nella direzione giusta quando profanano quella dignità fittizia o quei luoghi comuni concentrati nell'espressione: "C'est l'Afrique", ripetuta all'inizio di Les Pygmées de Carlo, ma si fermano entrambi alle soglie di quello che poteva configurarsi come una intuizione decisiva: rifiutano entrambi anche il facile recupero di age d'or che è tratteggiato a tinte fosche e un po' corrotto comunque (non a caso si citava prima Cassavetes) senza però affrancarsi completamente: n fondo la comunità nera è ancora nei suoi inizi un paradigma e il mito del bon sauvage è duro da estirpare dai figli di Levi Strauss (citato nel film di Mihaileanu). Forse perché non hanno ancora visto Heremakono di Sissako, di cui non abbiamo ancora parlato ma ci ripromettiamo di farlo, forse attraverso quelle nuove immagini che ricercano solo in se stesse una legittimazione, rendendo storia l'inquadratura "illuminata" nella sequenza precedente e con quella si vanno a fare paragoni e riconoscere le differenze: solo così riusciremo a liberarci dei nostri retaggi e in quel modo potremo con più forza sbugiardare i tentativi neo-autoritari senza rifugiarci nell'abbraccio mortale di un presunto aureo passato, di cui sia Sayles, sia Mihaileanu hanno la percezione che si tratti di una trappola, ma entrambi sembrano inermi, incapaci di sottrarsi alla nostalgia.
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