TODO SOBRE MI MADRE







Le battute iniziali, in ospedale, dichiarano gli intenti: il cinema è esattamente come quella macchina che Almodovar riprende in apertura, mentre dosa sapientemente gli ingredienti della vita e della morte. Un'infermiera solerte, Manuela (Cecilia Roth), coordina le operazioni burocratiche di un trapianto di organi; la vediamo poi partecipare ad una simulazione di colloquio con donatori potenziali: ancora un riferimento al meccanismo finzionale, al set, al lavoro della recitazione. Il contrappunto, che presto si fonde col tema principale, è costituito dalla messa in scena (allucinata e iperrealista) di Un tram che si chiama desiderio, con protagonista Marisa Paredes nel ruolo principale e Candela Pena in quello di Stella. Col dipanarsi del racconto all'infermiera si aggiunge una piccola folla di personaggi: si assiste ad una sfilata di attrici care al regista spagnolo, ognuna col proprio carico di imprescindibili memorie cinematografiche.

Il giovane chiede a Manuela se farebbe l'attrice e scopre che recitava testi di Vian, questa citazione e il continuo rimando ai foschi romanzi gotici di Capote (qui citato probabilmente per la capacità di fondere umorismo grottesco e dramma derivante dallo studio della realtà) introducono elementi di storia del teatro utili per limitare il campo di interesse e per fungere da prolessi ai sentimenti espressi nel plot che s'intreccia al testo teatrale: per stigmatizzare le figure maschili, ma anche (assistendo alla sorte di Suor Rosa, incinta come il personaggio di Tennessee Williams, appare evidente) per dimostrare che il vero interesse del film è esagerare la purezza dell'emozione rappresentata per creare allegorie del sentimento che in quel momento riempie lo schermo, in questo fedele al dettato del nume Tennessee Williams, il quale, stravolgendo la realtà tramite le ossessioni maniacali di sessualità e degrado, produsse allegorie potenti al cui centro erano sempre donne disperatamente sole tra accenni di solidarietà femminili, abbandoni a sogni destinati a fallimento e violenze machiste: eclatante in questo senso l'episodio del cane incontrato casualmente mentre si segue un classico percorso della memoria, momento toccante di calcolata melensaggine non mitigata da venature commentative; l'autore ottiene così quel mix di ironia e di coinvolgimento all'interno di un unico pathos, dove lo sguardo distaccato sui luoghi comuni del melodramma non modifica la carica emotiva dello stesso. Come già per La ley del deseo, il regista non usa il palcoscenico per confondere il piano della diegesi reale con lo spettacolo, sia quando intercala la vicenda di A streetcar named desire, sia quando prepara il monologo per Agrado in quel delizioso (eppure fuori luogo) accenno di avanspettacolo; il palcoscenico gli serve esclusivamente come commento, basso continuo, da alternare a All about Eva per indicare meglio la giusta interpretazione da dare alla sequenza.

Questo metodo gli permette di rendere accettabili i suoi interventi commentativi fino a riavvolgere il nastro come nei Funny Games di Haneke o nel Ferrario di Tutti giù per terra, ma non per proporre un nuovo sviluppo o dimostrare ulteriormente la presenza autoriale, bensì per rivelare che anche questa volta come in La Flor de mi secreto il video sull'asportazione degli organi non fa parte del plot.

Finzione e realtà si confondono sublimemente nel momento in cui Agrado recita: " Una donna è tanto più autentica quanto più somiglia all'idea che ha sognato di sé stessa ", una battuta pronunciata su un palcoscenico e quindi nel più classico momento di finzione ammantato di autenticità dalla mimesi.