All'interno della mailing list gestita da Expanded Cinemah si è aperto un dibattito che per i più fedeli frequentatori riprende un tema affrontato ad agosto '99 a partire da Guy, C'est arrivé près de chez nous, Pleasantville, Truman Show ...: come allora ci troviamo a discutere di rappresentazione e realtà e dello spazio occupato dalla soggettiva e della sua falsità. Ovviamente lo spunto nasce da American Beauty e più evidentemente da The Blair Witch Project, quest'ultimo è un film che per alcuni non esiste se non per il fuori campo a cui rimanda e al gioco con lo spettatore prima ancora che con i protagonisti evidentemente sottoposti a diversi livelli di consapevolezza, mentre per altri è assolutamente privo di fuori campo. Sarebbe interessante porre a confronto quel tipo di "realtà fictionale" con quella di Lynch (The Straight Story), altrettanto ricostruita a partire da stereotipi mitici. Per ora ci siamo cimentati con gli schemi di American Beauty
I lunghi e multipli messaggi possono rafforzare un pregiudizio in chi non ha ancora visto il film: il valore iconico di American Beauty sembra venire sviscerato e portato in primo piano, come probabilmente merita dai molteplici e contrapposti interventi che abbiamo deciso di documentare rendendoli di pubblico dominio anche per coloro che non sono iscritti alla lista, poiché si tratta di film che hanno scatenato un tale dibattito da meritare trattamenti ulteriori rispetto alla semplice recensione. Il plausibile dubbio del non ancora spettatore del film (ma avvinto lettore dei commenti allo stesso senza timore di spoiler) è che quest'iconologia/iconografia possa essere in realtà un "trasferello" di pop-art (molto pop, dunque, ma anche un po' desueto), una specie di True Stories per le masse. Molti sono rimasti scontenti dal film, e se ne intuiscono abbastanza bene i motivi: e' un film studiato per vincere, proprio il contrario di quello che il suo protagonista vorrebbe quasi cercare di proporre come nuova filosofia di vita (il perdente per scelta, non per necessita' – per sottrazione, perché alla logica del successo a tutti i costi, la vera "American Beauty", non vuole più cedere); e' un film che tutto sommato affronta tantissime cose senza veramente approfondirne nessuna. È un film che «finge» di essere cinico quel tanto che basta per solleticare certo pubblico e poi alla fine riconcilia tutto e tutti in perfetto american style. E la scelta del cast è perfetta, capace di solleticare chiunque, perché Spacey è un uomo affascinante ma è credibile come 40enne in crisi (avessero messo un bellone come Kevin Costner non avrebbe più avuto molto senso, la storia), e la Bening e' isterica quanto deve. Un elemento accomuna i due film maggiormente discussi dello scorcio di stagione: l'assenza di immagini | ![]() |
Grazie a Valentina per averci ricordato Borges ...e ad Andrea per Lavoisier. Se tutto si trasforma, allora viene suffragata l'ipotesi che anche le singole immagini, ogni singola immagine, del film si possono leggere in modo diverso a seconda dell'interpretazione data da ciascun carattere: l'apoteosi ermeneutica. Potremmo riguardare tutto il film individuando la fessura attraverso la quale lo guarda ogni personaggio, finendo con il scegliere autorialmente alla fine la visione (pacificata?) dall'alto di Spacey, o negandola per accettare la fuga dei due ragazzi. Questo confermerebbe la genialata di quelle riprese sconnesse e assolutamente folli che ritraggono i due ragazzi nella stessa impossibile inquadratura. Quella è la fessura attraverso la quale il cinema cerca di sfuggire ai suoi canoni e imbrigliamenti. |
La rosa, |
A parte l'inizio che registra lo stupore verso il cinema americano dieci, cento volte superiore a quello europeo come intensità ed elaborazione dello sguardo (è curioso che su Positif di febbraio la recensione sul film inizi quasi con le stesse parole di Luca nel suo articolo per "reVison"). Tra le cose più intriganti:
La voce over è più autentica delle immagini, ma anch'essa ha una origine tutta interna alla storia del cinema (Sunset Boulevard) e solo attraverso quella sua sardonica verità (alla fine ci dileggia e ci ammonisce con un memento mori degno dei pittori della controriforma) ricostruiamo a posteriori il vero paese di zombies, documentato nei morti nastri video, che ci è stato mostrato e non attraverso infinite parodie deja vu della crisi di mezz'età o l'ennesima resurrezione di Nabokov (la signorina è semplicemente lo spot della più classica e poco originale idea di seduzione dell'americano wasp, riproposta ancora una volta per ribadire la mancanza di spunti nuovi che infarciscono volutamente la pellicola per rendere asfittico l'immaginario, ancora più cortocircuitante nella duplicazione).... potrebbe essere interessante ripescare lo studio (G.Bettetini, Tempo del senso Milano, Bompiani, 1979, pp. 160-201) semiologico fatto sulla voce dalla piscina del morto William Holden.
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Trovo straordinario applicare al film di Mendes il Deleuze-pensiero, impresa cui rinunciai in partenza: Deleuze è un pensatore per diadi, il film impone invece le triadi, e io mi vedevo già a bisticciare coi numeri. Caramanna ci riesce e vince la partita.
Se provassimo per una volta a vedere cosa effettivamente c'è nel film e non ciò che ci piacerebbe ci fosse tanto per solleticare il nostro già fin troppo smisurato intelletto? Cerchiamo di non "canoveggiare" dove non necessario.Il sacchetto di plastica è, senza bisogno di sembrare null'altro. Forse perché non ne ha bisogno? Federica Arnolfo
Quello che più mi fa riflettere di questo film, intanto, è la grandissima eco che ha avuto tra pubblico e critica. Cosa dice di così "forte" ? E' uno specchio? É perché assolve le colpe di cui si sentono tutti responsabili (la mediocrità di una civiltà dei consumi vuota come...una busta di plastica?) o perché, al contrario, mette a fuoco le vere "colpe", il vero guaio, la RADICE di certi mali/malesseri? |
1) LA COMPOSIZIONE DELLE INQUADRATURE |
Senza offesa, ma queste sono poco più che seghe mentali. Federica [Affini, in qualche misura, alla pratica preferita da Lester. Ebbene, te lo dico in tutta sincerità: le beghe della famiglia americana, e le paturnie della donna wasp frigida, non mi appassionano pur costituendo un elemento narrativo con cui fare i conti. Allora li lascio fare a te, e per me tengo tutto il resto (il cinema). Luca ] Non disdegno invece il riferimento a Une liaison pornographique, ma non nei termini in cui lo prospetti tu. Il film tra le tante altre cose ci pone di fronte una visione spietata e feroce della coppia borghese (e della classe borghese più in generale), chiusa nelle convenzioni della società di cui fa parte, chiusa tra quello che è e ciò che appare. Un microcosmo (ciò che è) opposto ad un macrocosmo (ciò che appare) cui tutti più o meno direttamente fanno riferimento. In questa ottica, è d'obbligo notare i forti precedenti di Lolita (non quindi nella relazione uomo maturo-ragazzina, che qui conta pochissimo, in quanto la biondina è solo una molla che serve a Lester per far scattare il "ciò che si è" e poi tanto ragazzina neanche lo è), di Truman Show, di Eyes Wide Shut, e financo di Fight Club. Tutto ha una duplice natura, in questo film (ciò che è e ciò che appare), a cominciare dal titolo. La bellezza americana chi è? Una ragazzina bionda, o una rosa? O entrambe? Federica |
Ci sono film che sostanziano un equivoco che il cinema narrativo si porta dietro fin dalle poco nobili origini: l'equivoco riguarda l'annoso dibattito sullo "specifico filmico". Io credo che il film sia una merce culturale marketing oriented (come dice Marcello Walter Bruno), e che assolva ad una funzione mitica. Nell'assolvere a questa funzione, i realizzatori del film (che non sono l'Autore) hanno (non sempre, ma quasi sempre) un rapporto del tutto strumentale con l'elaborazione formale.
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A me interessa di più la genialata di mostrare frontalmente entrambi i ragazzi contrapposti dalla disposizione delle finestre e che soltanto il cinema mi consente di vedere in una sola inquadratura di infiniti specchi e divisa in metà, dove non si sa chi dei due seduca e chi dei due "guardi", chi il voyeur e chi l'esibizionista: era l'unica idea del primo Soderbergh e qui è portato al parossismo, come anche nella sequenza in cui il video enorme sulla destra restituisce la figura del ragazzo-pusher ridotto nelle dimensioni in basso a sinistra, ma è quest'ultima porzione di schermo ad attirare. La vera immagine affezione (bravo Andrea a evocare Deleuze) è quella più piccola e risultato di un passaggio in meno attraverso la duplicazione rispetto ai livelli di distanza dalla realtà, però il confronto con la duplicazione è indispensabile per rilevarla, e serve (in un'interpretazione del testo che non si ferma al vieto contenutismo del quartierino wasp fordista) a ribadire che il vero racconto è quello della voice over e non quello fatto di battute già conosciute, di musica prefabbricata (come quella dei pasti) o di situazioni "morte" già nei film di James Dean e infamone-Kazan. |