T.A - Tuta Antivaccate - Titolo sezione

NearDark - Database di recensioni

Africa

Godard Tracker


Tutte le
Rubriche

Chi siamo


Cerca nel sito

T.A. - Tuta Antivaccate
immersioni spericolate nel ridicolo

Ritorno alla questione del Terrorismo:
cineslogan e cinestereotipi della lotta contro la cinenarrazione

Da qualche giorno mi continuava a ritornare nella mente uno dei tanti slogan che lo stato aveva usato con la retorica tipica di ogni guerra trent'anni fa, quando, gonfiando un fenomeno minoritario con lo scopo - riuscito perfettamente - di soffocare le istanze innovative di una generazione, aveva inscenato un film di successo intitolato Lotta al terrorismo, Gladio production, regista Kossiga. Come avveniva ormai periodicamente, l'epigonismo stava riemergendo anche in concomitanza con nuovi movimenti dal basso, non controllabili dai pompieri di sinistra: questa volta si utilizzavano sparuti gruppetti di irreconciliati che non avevano ancora nemmeno girato una scena del loro anacronistico film, ma avevano l'età giusta per ricordare il canovaccio di allora, comprese le romantiche dichiarazioni ottocentesche di prigionia politica, e si montava il sequel... ma continuava a sfuggirmi il titolo del primo film, quello originario, con cui l'immaginario relativo alle prassi brigatiste era stato fottuto, almeno cinematograficamente parlando: l'Ur-pastone di buoni sentimenti e stereotipi falsi.

Intanto Daniele Sepe impazzava dalla radio con la sua Rote Jazz Fraktion: Suonarne uno per educarne cento, non era lo slogan che da giorni stava occupando la mia mente "militarmente" (in sintonia con l'imprinting stalinista del partito armato), ma era parente e si avvicinava negli intenti a un altro film, questa volta serio e non vacuamente intimistico, Deutschland im Herbst, dove se ci entrava la famiglia era solo per ricordare lo stato di diritto e non per avviluppare tutto in un brodo inespressivo utile a stornare dai problemi reali, per virare sul romanzo borghese... e qui si accende una prima lampada, che mi avrebbe condotto a ripescare nella memoria quello slogan tanto caro ai tg di trent'anni fa. E di conseguenza alla pellicola che stavo cercando di ricordare.

Un nuovo tassello va ad aggiungersi alla mia memoria, ormai porosa: Lucarelli stava sproloquiando da ore in tv. Ricostruiva la storia delle br, ma non c'era la società, mancavano i giovani che rifiutavano sia lo stato che le br, non c'erano gli operai che avevano subodorato quello che li stava aspettando (la deriva autoritaria e il precariato: la marginalizzazione), non c'era traccia dell'analisi del periodo e, delle persone, emergevano solo i personaggi da western, le date e i colpi di skorpion: tutte cose che sappiamo... intendiamoci, ben vengano le ricostruzioni "scientifiche", meglio dei fotoromanzi che usano l'edipo come metafora sociale (ma qual è questo ricordo che dovrebbe aiutarmi a rievocare?), rimaneva l'intento educativo, ma almeno si elencavano i fatti.
Il problema con Lucarelli è sempre lo stesso dei servi del potere: più si avvicina l'epoca presente e più si schierano: mentre Cagol, Curcio e Franceschini sono nomi quasi romantici e Moretti, Faranda e Balzerani hanno dignità di coprotagonisti, le ferite più vicine, quelle che riguardano in parte ancora il presente sono raccontate con un taglio apertamente schierato, senza spazio per "incrinature nel fronte della fermezza", che è un altro slogan per dire che non ci può essere analisi, ma solo la versione del sistema attualmente al potere (regime di centrodestra o di centrosinistra che sia). Guido Rossa è un'icona e Biagi è il martire che ha permesso il passaggio a un'organizzazione del lavoro feroce, iniqua e precaria.

Risuona però una "nuova" frase: "fare i conti con il passato". Comincio a capire che solo affidandomi alla coazione a ripetere degli slogan riuscirò a ricostruire la sensazione di disagio che mi deriva dall'avere in mente quel titolo di un vecchio film, che - mi ricordo - era una vera porcata gettata nella società italiana dei primi anni Ottanta come fosse un capolavoro e invece si avvaleva di una serie infinita di luoghi comuni, recitato da automi, pilotati da un regista che in testa aveva - come per ogni suo film - solo stereotipi a cui ricondurre le storielline piccolo borghesi (però non era Un borghese piccolo piccolo, ma mi verrà in mente!) con le quali descrivere tutto il mondo, che fossero albanesi deprivati o illustri fisici, emigranti torinesi o poliziotte della buoncostume, il modello da applicare è sempre lo stesso, un cliché invariabile.

"Fare i conti...", Susanna Ronconi è una madamina cinquantenne, brava nel suo lavoro, competente, intelligente e capace, ha scontato la sua pena fino alla fine: dodici anni di galera; si è reinventata, come il suo compagno di lotta Sergio Segio, un'esistenza "impegnata nel sociale" - sembra che gli slogan si debbano sprecare in questi argomenti - ma il passato torna sempre a precludere una attività normale... è vero che da chi lottava contro il sistema, ci si aspetta che non si metta a lavorare alle dipendenze dell'istituzione che voleva affossare, ma quella sarà una sua scelta di compromesso con il suo passato: se le sue competenze possono essere utili e lei è disponibile a metterle a disposizione, perché farne a meno? Eppure avviene proprio questo: il passato ritorna e non si riesce mai a fare i conti con lui... per forza: se i fini intellettuali della sinistra sono riusciti a scodellare su un'epoca di lotta anche armata solo titoli ravvoltolati in spazi asfittici come Buongiorno notte oppure... [ecco che torna a sfuggirmi il titolo], allora non c'è scampo.

Affiora "Cattivi maestri", ma cinematograficamente non c'entra (a parte che si tratta di un pessimo film, come quello che mi accaniscono a voler ricordare per masochismo) con la pellicola che mi sfugge, no anzi il regista è un "cattivo maestro", nel senso che è un pessimo autore: "Cattivo maestro"! ma certo, si spalancano ricordi di sequenze del film che mi sta ossessionando: un professore incontra in campagna un suo ex allievo, ha familiarità, non si sono persi di vista, continuano a parlottare tra loro, basta questo per connotare l'uomo, che sappiamo essere un docente normale: è un "cattivo maestro" nella sua forma più stereotipata, immediatamente riconoscibile, proprio perché il prodotto da sfornare è divulgativo, ha la funzione degli affreschi di una volta. Qualsiasi spettatore deve riconoscere i tipi per ricondurli alla realtà (e magari seguire le indicazioni di Pecchioli - chi lo ricorda più il grande delatore?); anche il giovane va caricato di certezze e allora si allestisce un bric à brac in soffitta perché possa sbizzarrirsi in citazioni dotte e sentenze su ogni singolo oggetto... mezzucci da piccolo cattivo maestro del cinema, più che maestro, scarso dilettante. Sempre più mi sopraffanno i ricordi di quel film e vengo preso dalla voglia di assegnargli anch'io attributi semplificativi per tagliare con l'accetta il ricordo sgradevole che si fa sempre più nitido: didattico e al contempo contraddittorio... com'è possibile? eppure prima ancora del titolo, mi viene in mente la coesistenza della contraddizione con l'intento educativo, il compiacimento di essere contraddittorio: la malafede, dunque.

Infatti si crogiola nell'ambiente borghese, gode di mostrare quanto sia agiata la vita del mandante intellettuale, ma non resiste al bisogno di salire in cattedra a sua volta e giudicare non politicamente, e neanche teoreticamente, ma solo sul coté intimista, all'interno della famiglia: il terrorismo sta ai margini, come le lotte sociali o il mondo del lavoro che allora esisteva, quanto esisteva il suo rifiuto e del sistema di alienazione che nascondeva... no, per Amelio (ecco chi è il cattivo maestro!) tutto si riduce a un cineromanzo borghese che conterrebbe tutto il problema del terrorismo, risolvibile con un semplice caso edipico. Ecco in cosa Amelio con il suo... Colpire al cuore [evviva, ecco alla berlina lo slogan ottimista e fallace!] è un cattivo maestro: ha indicato la strada ombelicale a tutti quelli che sono venuti dopo di lui a trattare la materia del terrorismo solo con risvolti intimistici e mai con analisi che potessero uscire dalle pareti asfittiche del bignami di cazzate familiste, colme di psicanalisi d'accatto, dove anche gli esterni sembrano un tentativo di creare quadri metafisici, ma senza nulla di dechirichiano, non c'è mistero, piuttosto tutto sembra ricostruito secondo direttive sempre uguali, anche se la ripresa è in esterni... la scena è statica, sono fermi gli astanti, l'acqua nelle pozzanghere è stata versata e resta innaturale, immota come in un teatro di pose (non di posa: i quadri, le inquadrature di Amelio sono pose innaturali che non gettano luce su nulla, fanno solo innervosire per la carica di esplicite velleità di indottrinamento che contengono... si tratta della scena del delitto di terrorismo e vorrebbe essere uguale a quelle del tg, ma senza la concitazione, la partecipazione, gelida, ma non per scelta registica, quanto perché è frutto di un tentativo di duplicare una velina di stato.

Ora che so qual è il film, lo recupero, venticinque anni dopo e mi faccio del male: lo rivedo, anche perché le autorità cittadine dopo aver inscenato il teatrino del festival, hanno affidato a Amelio l'organizzazione di una mostra-rassegna di titoli sul cineromanzo: film degli anni Quaranta-Cinquanta italiani, si inaugura il 7 marzo e così decido che le coincidenze sono tante e vale la pena indossare di nuovo la tuta antivaccate, dopo tanto tempo.

Una delle prime sensazioni - predisponendomi ad assistere a un testo pericoloso al punto da dover indossare la tuta, come primo effetto si ottiene l'acuirsi della percezione delle banalità nella formalizzazione - è quella che il lungo prologo (più di venti minuti!) debba essere infarcito di segnali facili facili che non possano sfuggire a nessuno, per fungere da prolessi scontate... infatti non ne manca nessuna e sono tutte inserite facendo bene attenzione che si sottolineino e non possano sfuggire, ma la più palese è la macchina fotografica, arnese infernale che ricorre lungo tutto il film... un vero simbolo, ma anche una prassi e un mezzo di interpretazione: probabilmente alla scarsa fantasia di Amelio non parve vero di trovare in un oggetto tutto quello di cui nel suo raffazzonamento aveva bisogno per cercare di conferire un filo logico al dipanarsi del racconto... e lì trova proprio la banalizzazione definitiva di un plot vuoto di idee e soprattuto di narrazione, zeppo di psicologismi d'accatto, inutili per cercare di spiegare il fenomeno che vorrebbe ufficialmente affrontare. Comincia subito con il terrorista che proletticamente mostra al protagonista una foto dove il padre partigiano imbracciava uno stern: «Figurati mio padre che metteva al muro qualcuno!» è la risposta a quella foto storica, che non fa parte dell'universo di foto che, documentando la sua verità, costruiranno il fronte accusatorio, scattate di nascosto da feritoie "naturali" su un mondo privo di chiavi di lettura, per Amelio innanzitutto (e di conseguenza per i suoi personaggi), bisognosi di creare una Storia a cui riferirsi e ritrovandosi con una storiellina insignificante ma molto didascalica, e le foto che si riducono sbiadendo al rango di tormentone.

Un fenomeno ben più complesso nel suo sviluppo, al punto che insieme alla ribellione nata nello stesso periodo - e che la lotta armata contribuì a cancellare - è tra le pagine di storia italiana mai realmente affrontata seriamente, irrisolta e irreconciliata, quando va bene, proprio perché si lasciò che personaggi come Amelio potessero virare su un abborracciato scontro familista tra generazioni ogni discussione di merito, aprendo la stagione dei cineromanzi di terrorismo che trova il suo culmine in quell'immondo sceneggiato superficiale e fuorviante che è La meglio Gioventù, dove sullo sfondo di un tema pregnante si muovevano i soliti personaggi con le solite paturnie adolescenziali, da cui probabilmente Amelio non è mai uscito, lo dimostra fin dall'inizio con la lunga carrellata che vede il ragazzino Emilio in bici dover sopportare senza l'ausilio della tuta antivaccate la storiellina del padre, che si scoprirà poi primula rossa: sui pazzi, lunghissima, ignobile e nemmeno divertente; ma allora perché dobbiamo sopportarci il lungo piano sequenza nella stradina dei campi, ripreso in una situazione avulsa da qualsiasi motivazione indotta dal tema? Ecco, questo è un altro problema di Amelio, ma vale anche per Bellocchio - o, tanto per rimanere tra i collaboratori illustri del Museo del Cinema, per Moretti -: chi cazzo gli sceglie le location? Anche fosse frutto di una precisa scelta di anonimato dei luoghi, quelli non valgono nemmeno come tali, sono semplicemente presi a casaccio, come la citata soffitta, riempita di oggetti troppo evidentemente diegetici, utili agli onanismi mentali di Amelio che crede si possa ancora fare narrazione improvvisando con un oggetto reso ready-made sul momento a cui conferire uno speciale significato; l'angolo della casa con i poster che occhieggiano con intenzione dal muro in penombra (Viet-nam, Chaplin... tutto mescolato), la stanza di Trintignant, impersonalmente tipica per un professore... così stereotipata da risultare improbabile. Il peggio che fa saltare tutte le barriere più esterne della tuta sono i casermoni con preponderante cemento semidisabitati dove si rifugia Giulia dopo l'attentato: la quintessenza della ricerca di facile complicità, come se l'autore volesse dire allo spettatore: «Hai capito che stavo cercando il covo delle br e questo è quanto di più 'covo' riesco a immaginare?» Si tratta di un'ossesione di Amelio, questa della location tipica, come se si trattasse di un luogo completamente rifatto secondo uno stile che ha solo lui in testa, da frequentare magari come fanno i fighetti con i luoghi di ritrovo ricostruiti in modo da somigliare così tanto alle osterie di una volta... di cui non hanno la minima idea di come fossero.

Il punto di forza del film è tracimato in ogni successiva pellicola sull'argomento: il dialogo asfittico. All'epoca si era frainteso e si attribuiva alla volontà di restituire le difficoltà comunicative attraverso dialoghi tra sordi, nebulosi e vacui, l'uso di ovvietà o di pose evidentemente desunte dalla sopravvalutata incomunicabilità di Antonioni (che non a caso fa capolino anche nella rassegna dedicata ai cineromanzi affidata a Amelio da Barbera, in odore di direzione di Rai-cinema): quelle inquadrature inutili e stiracchiate che immortalano Giulia/Morante - giovane e bellissima, degna di miglior causa - sulle terrazze di una dentiera o tra le orride case milanesi, come se fosse un deserto grigio anziché rosso; o le altre, in casa, che colgono Dario/Trintignant con sguardi persi nel vuoto, spesso con in mano un telefono, altro strumento reso simbolico (i telefonisti delle br spero che non c'entrino, ma la tuta mi segnala che probabilmente per lui è un oggetto topico anche per quella possibile allusione), sicuramente la presenza ossessiva del telefono ha una sua parte essenziale proprio per sottolineaere la difficoltà comunicativa che vorrebbe essere il vero fulcro del film: se non si vede l'interlocutore, e quello inquadrato è reticente, allora c'è incomunicabilità. L'impossibilità intergenerazionale di capirsi genera mostri: sì, gli Amelio, orridi presuntuosi che pretendono di spiegare con psicologismi d'accatto le infamie dei delatori e le illusioni degli intellettuali affascinati dalla gioventù di Giulia e Sandro, che però rimangono relegati su un fondale distante a causa della pochezza dei dialoghi, dovunque e sempre privi di qualsiasi interesse, pura funzione fàtica o banale complicità ricercata con lo spettatore, che dovrebbe predisporsi a sorbirsi esattamente quello che si aspetta, come in un reality attuale; ma anche dal pervicace tentativo, peraltro riuscito, di ricondurli ai più squallidi luoghi comuni: uno per tutti Sandro sa anche suonare il piano (oltre a riconoscere una edizione di Ortega y Gasset, sproloquiare ancora da saccente su Platone e appropriarsi da borghesuccio di un maglione), ciliegina: «suonavo l'organo da ragazzino, in chiesa»: ecco da dove provengono i brigatisti! (sembra dire la vocina di Amelio, amplificando la vulgata di migliaia di qualunquisti). Quando poi il grammofono emblematicamente fa uscire sul giardino la voce di Gigli, provocando il congelamento delle figurine degli interpreti, ridotti al rango di automi dal regista, otteniamo il contemporaneo surriscaldamento della tuta antivaccate, segnale che il momento topico è un effetto ricercato ma utile solo a nascondere l'incapacità di finire la sequenza ormai stiracchiata, come la tuta che si stravacca nella noia del discorso intimistico anche in auto nella sequenza successiva: ogni luogo chiuso è occasione per sciorinare introversioni adolescenziali. Accentuate - e segnalate dai sensori della tuta - dal raccontino davvero troppo palesemente didascalico dei trascorsi del giovane delatore che già alle elementari aveva "fatto il suo dovere fino in fondo": denunciato il compagno. L'intero episodio va rievocato: la fervida fantasia di Amelio colloca padre e figlio nell'androne, seduti sulle scale, all'alba dopo una notte dai carabinieri: «Forse non te ne ricordi...» qui la tuta sospende i suoi servigi per eccesso di scontatezza e rimane senza filtri anti-intimismo, ponendomi in uno stato di pericolo, esposto alla sciacquatura che persino Trintignant non riesce a pronunciare in modo convincente e deve tuffarsi alla fine in un abbraccio, ripreso di nuovo "nella luce vivida dell'alba", dopo che il ragazzino gli fa trovare le foto: «Vorrei solamente capire, sapere perché ce l'hai con me? Vorresti un padre che ti dicesse dov'è il bene e dov'è il male? ma padri così perfetti non ce ne sono più». «Figli perfetti ancora meno»; ovviamente non manca nemmeno il ceffone, che avrebbe dovuto stampigliarsi sul faccione di Amelio. Ridda di campi/controcampi: «Dunque sono io che ho sbagliato, dunque non ti resta che darmi un voto» «Oggi non si boccia più nessuno». Tutti sanno dare un giudizio su tutto e poi riescono anche a drammatizzare il loro giudizio che così viene spiegato ulteriormente per chi fosse riuscito a non capire ancora il "messaggio".

a cura di adriano boano