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GLBT Film Festival di Torino - I film che cambiano la vita - Da sodoma a Hollywood 2008
Lampisterie sinaptiche

3: la scoperta della propria identità

Ashita no watashi no tsukurikata (How to became myself) di Ichikawa Jun
e
Dixia Qing (Love unto Waste) di Stanley Kwan

Storia femminile made in Japan: adolescenti al college. L'aspetto più importante dell'esistenza è quello di essere popolari tra le amiche, avere carisma, far successo, diventare modelle da seguire, ma... se poi si fanno i conti anche con le proprie pulsioni o al peggio con la nascita di desideri inaspettati nei confronti di un'altra da sé del proprio sesso, allora tutto comincia a vacillare, non si sa più chi si è e le crisi latenti di identità e le confusioni di genere risultano insostenibili, a maggior ragione se anche l'esterno conferma che non vali niente: i grandi troppo impegnati a litigare tra loro per separarsi, i coetanei predisposti a emarginarti, così ti trovi a fare i conti con una sorta di mobbing giovanile, cattivello e annichilente come può essere il trovarsi fuori dal cerchio, il gruppo all'interno del quale si fa comunità, si condividono mode, atteggiamenti, interessi e persino visioni collettive del mondo.

In una sorta di lungo monologo interiore affidato alla sua voce fuori campo di qualche anno dopo, Juri ripercorre la storia di quegli anni scolastici, vissuti tra paure del domani e interrogativi pressanti su se stessa, quando attratta da Hanako, l'adolescente popolare, rappresentante di classe immortalata giuliva nella foto di gruppo, assiste alla di lei traumatica perdita di identità: un repentino passaggio dal protagonismo al vittimismo, giustificato anche dal fatto che la ragazza si sente improvvisamente simile al personaggio di un libro di Dazai Osamu, Lo squalificato, sempre in bilico tra il piacere di infrangere il codice sociale e il sentimento di colpa per non sapersi adeguare a esso.









Non a caso anche Hanako, come Yozo (il protagonista del libro di Dazai), si sente rifiutata dalla società nella quale vive e deve affrontare una condizione esistenziale di estrema solitudine. Se gli stratagemmi che inventa Yozo, per destare il suo animo dagli stati letargici e provare a sopravvivere tra i suoi simili, si riveleranno essere delle autentiche "pagliacciate", quello che escogita Juri per svegliare Hanako dal torpore della sconfitta sarà perlomeno adatto allo spirito del tempo e comunque molto attuale: inventare altre se stesse, protagoniste fittizie di una storia da narrare tramite una corrispondenza interamente virtuale, affidata ora ai messaggi scritti di getto al cellulare per trarsi d'impiccio in situazioni critiche (anche quando si deve far colpo su un maschietto), talora alle e-mail maggiormente ponderate nel loro consigliare come comportarsi per diventare finalmente se stesse. La finzione consente alla fine di giungere a capire la propria personalità e la bontà delle pulsioni avvertite, seppur facendo l'occhiolino alla maniera di apparire in formato televisivo delle teen-ager.

Potrebbe risultare una storiella banale alquanto didattica, ma la regia, oltre a manifestare una seduzione per l'immaginario collettivo adatto a un microcosmo adolescenziale non solo nipponico, ha il pregio di sbizzarrirsi nel montaggio all'interno dell'inquadratura, tagliata a volte a metà per dar spazio all'una o all'altra delle fanciulle, impegnate a intessere un canovaccio letterario in maniera virtuale, in altri casi divertita a far comparire finestre filmate all'interno di paesaggi urbani, segnati da cieli tersi o inframmezzati dal passaggio di nuvole curiose, per incrementare la narrazione, ritmata soprattutto dall'andirivieni di messaggi reciproci, siglati spesso da dissolvenze incrociate sulla giornata delle due giovani.

Juri non è una ragazza di successo, è stata bocciata e non riesce nemmeno a dare il meglio di sé come vorrebbero i suoi genitori ("Io ho fatto il meglio, ma non mi hanno detto cosa fare"), spaesata, si guarda intorno e viene calamitata dall'atteggiamento scostante e ombroso della compagna di classe, Hanako, ormai caduta in rovina. Non la ignora quando si trovano da sole, infastidite dai riti della consegna dei diplomi. In quella circostanza soltanto la citazione tratta da un libro di Dazai sembra tessere una reciproca consonanza di interessi tra loro ("A mentire sei brava, per cui almeno comportati bene!"), mentre per lo spettatore è evidente la nascita dell'attrazione reciproca, mai evidenziata da elementi di scivolamento verso la trasgressione sessuale. La morbosità del desiderio di sentirsi unite nel canovaccio letterario che Juri sta scrivendo, per raccogliere gli umori dei suoi sentimenti e al contempo sorreggere l'amica (trasferita altrove con la famiglia) per uscire fuori dall'emarginazione, diventa alla fine una comune e solidale percezione di volontà di conoscersi e incontrarsi al di là del copione programmato: si riconoscono nel riprendere in mano vecchie fotografie di classe, suggellano il proprio volto attuale in una fotografia digitale, ritrovano voci di un comune sentire nel corso di telefonate al cellulare, finiscono per desiderasi e forse anche per amarsi. Non lo sapremo mai..., ma si esce comunque dalla visione con la certezza che le due adolescenti abbiano imparato a diventare se stesse, spogliandosi degli abiti della menzogna, letteraria e cinematografica.

A rincuorare le elucubrazioni aiuta persino la voce narrante, quando arriva ad affermare che: "Svelare un segreto, rafforza l'amicizia..." sempre comportandosi bene!

paola tarino


Nel range immediatamente successivo di anni della crescita di ogni individuo gravita la ricerca di se stessi di Stanley Kwan: Dixia Qing durante la proiezione non si presenta propriamente come un oggetto di culto, ma poi, rimeditandoci, collocandolo in un'epoca risalente a ventidue anni fa (otto anni prima di Chungking Express di Wong Kar Wai!), diventa sorprendente per la tendenza ad assimilare gli insegnamenti della Nouvelle vague, ma anche per la freschezza con cui si procede a fare un consuntivo della propria esistenza... fino a quel momento.
Un racconto scombinato, promiscuo e senza freni, che di fronte al moribondo, rallenta fino a fermarsi per accogliere un'improbabile morale d rimeditazione su se stessi e sul recupero di un'identità perduta (tanto che il regista ha detto a distanza di vent'anni che vorrebbe riprendere la situazione e fare un sequel): manca la tensione libertaria e la sperimentazione linguistica estrema di Bara no soretsu (1969) o il gusto per il sincretismo e la fotografia espressionista di Madame Sata (2002), ma collocato perfettamente a metà tra i due capolavori, contiene in germe i prodromi dell'uno facendo da tramite epigono dell'altro; quindi ritroviamo nell'indagine la scanzonata esigenza di uscire dagli schemi del film giapponese e la morbosità di quello brasiliano.
Un po' retorico il "sugo" manzoniano finale, ma spassoso: il poliziotto protagonista agonizzante per una malattia (aids o leucemia?), che può parlare soltanto se qualcuno gli pigia il cerotto sul collo e il giovane dissoluto che fa il consuntivo della sua vita e del suo egoismo, il suo modo di usare le persone, la sua vorace e veloce consumazione delle relazioni e della esistenza, i suoi amori e le sue pulsioni... dopo un'intera pellicola dove si accavallano scopate in mezzo a sacchi di riso, canzoni tristi e pranzi, ma anche bislacchi omicidi con indagini assolutamente folli, condotte da un disperato poliziotto che vuole assaggiare la vita e la percepisce in quel gruppo di giovani che abitano case come fossero luoghi cinematografici, siano appartamenti sui dock o lussuosi loft, sono comunque pieni di vita... che sfugge loro tra le dita. Questa è la vera protagonista, che si sente fuggire in tutto il film... e tutti i protagonisti sono semplicemente impegnati a non lasciarla andare troppo in fretta. Nouvelle vague, appunto.

adriano boano