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Future Film Festival
Bologna, 23/26 gennaio 1999

Incontriamo Terry Gilliam il giorno dopo la presentazione del suo ultimo film "Fear and Loathing in Las Vegas". Definire il lavoro di questo straordinario regista non è facile, considerando anche solo la molteplicità delle strade attraverso le quali si è avvicinato al cinema: cartoonist (e il suo amore per fumetti e cartoon è evidente anche dal maglione che indossa, grigio con stampato il viso di Tin Tin), attore, autore, sceneggiatore, regista, Terry Gilliam ha sicuramente portato con sé una parte di quello humour pungente e surreale che ha caratterizzato il lavoro dei Monty Python, dei quali è stato uno dei fondatori e con i quali ha collaborato sin oltre la metà degli anni settanta. "Io sono stato parte dei M.P. e il loro umorismo è parte integrante di me e continua ad esistere nell'immaginario collettivo, anche perché la televisione ripropone spesso, in America, i loro sketch, che così finiscono per raccogliere un pubblico sempre nuovo."

Uno humour grottesco, mescolato ad una personalissima visione del fantastico. "Nei miei film cerco semplicemente di spiegare quella che  la mia confusione personale, la definizione di quello che reale e quello che non lo. Non sono film fantastici di per sŽ, ma una mia confusa idea del fantastico; una rappresentazione della battaglia tra il reale e l'irreale, il mondo della fantasia e quello dell'immaginazione. Penso che una commistione di queste due cose sia necessaria per vivere una vita interessante, sviluppare una fantasia capace di distaccarsi da quella che viene imposta dagli spot televisivi, che la propongono su vasta scala, ma imponendola, per il fine per cui sono creati."

 


Perché ha raccontato oggi, 1999, una storia degli anni '70, forse un po' di nostalgia?

"Beh, un po' di nostalgia, c'è, per forza. E poi in America al giorno d'oggi la gente tende a dimenticare, a dimenticare tutto: quello che è stata così come quello che non è stata, quello che ha vissuto, quello che ha fatto, quello che era possibile o quello che non era non possibile, e io voglio invece ricordarglielo, adesso, come stavano le cose." Come Gilliam ha specificato anche prima della proiezione del film, "il romanzo di Thompson ha avuto un significato profondo per i giovani americani, perché è il racconto dall'interno della fine di un sogno, quel sogno che li aveva visti aprirsi verso un certo tipo di libertà conquistata attraverso svariati mezzi, tra cui le droghe, e al contempo è il racconto del fallimento di un'intera generazione mandata a morire nel Vietnam. Metaforicamente un'onda ormai infranta nella cui risacca si poteva trovare ben poco di significativo; di qui la necessità di rendersi conto come un certo modello di vita che fino a pochi anni prima sembrava proporsi come "vincente", aveva invece fallito.
"E' sempre faticoso cercare di portare un libro sullo schermo, perché ciascuno di noi lo interpreta secondo la propria sensibilità; io spero di aver reso il più possibile quella che è l'essenza del romanzo. Di fondo c'è un progetto che è andato a monte, perché sono venticinque anni che si cercava di fare questo film, ma nessuno era mai riuscito a realizzarlo; finché un giorno ho ricevuto la sceneggiatura scritta da Alex Cox: ho letto le prime trenta pagine e mi sono molto divertito, forse perché mi hanno ricordato quei tempi e soprattutto quel romanzo. Rileggendola in verità mi piaceva meno, ma era riuscita a stimolare il mio interesse al punto di spingermi ad andare a Los Angeles per parlare con le persone che potevano essere interessate a questo progetto. A questo punto abbiamo riscritto la sceneggiatura in otto giorni, cercando di restare fedeli all'essenza del romanzo. Poi ce ne siamo andati ognuno per i fatti propri, e abbiamo riletto quello che avevamo scritto. Ci siamo telefonati e ci siamo detti "fa proprio schifo!". Così l'abbiamo riscritta in due giorni."

Perché, secondo Lei, il titolo italiano del suo film è stato tradotto come "Paura e delirio a Las Vegas"?

Ci risponde Nicola Pecorini, Direttore della Fotografia di Fear and loathing in Las Vegas: "Per quanto riguarda la traduzione italiana, secondo me è un chiaro segnale dell'americanizzazione dell'Italia, nel senso che "delirio" è molto più perbenista di "disgusto". E si è scelto di mettere quello anche se non c'entra niente. Scelta che suppongo dipenda esclusivamente dalla distribuzione italiana, ma che la dice lunga sul fatto che il messaggio di fondo del film è ben chiaro non solo in America, ma anche nel resto del mondo."

Forse anche per il fatto che, dal punto di vista commerciale, inserire la parola disgusto avrebbe potuto allontanare delle persone dal cinema?

Sempre Nicola Pecorini: "Sicuramente, anche se io vivo all'estero da anni e non sono addentro a questo tipo di cose, però da quello che vedo in America c'è una paura estrema ad uscire dal seminato e ci sono molti episodi che Terry potrebbe riportare meglio di me rispetto alla promozione che c'è stata lì del film; lui voleva tentare una campagna aggressiva e date le reazioni spesso isteriche contro il film, voleva sfruttare questo tipo di isterismo. Per esempio quello della stampa locale, che non c'è andata esattamente leggera: dei critici che avevano distrutto il film venivano riportate le frasi più significative tipo "inguardabile, vomitevole", "andate a vedere e decidete con la vostra testa", che è proprio il punto del film. È chiaro che gli uffici di pubblicità non sono molto pronti e disponibili a discorsi di questo genere."

C'è qualche attore con cui le piacerebbe lavorare in particolare? Al momento della scrittura del film matura già un'idea degli interpreti?

"No! Non passo il tempo a pensare con quale attore o attrice vorrei lavorare, non ci penso proprio! Quando ho scritto la sceneggiatura inizio a pensare a chi potrebbe interpretare al meglio quel personaggio. Diciamo che una cosa che voglio fare è lavorare con buoni attori, anche perché mi piace e mi stimola lavorare con gente intelligente, che abbia delle idee e che abbia voglia di metterle in gioco, poiché è sempre bello essere in un gruppo affiatato in cui tutti puntano nella stessa direzione e abbiano voglia di collaborare attivamente. È importante questo senso di comunità sul lavoro e di intenti finalizzati verso uno scopo comune."

In questi ultimi due anni sta uscendo un gran numero di film che cerca di raccontare l'ansia dell'uomo nel passaggio tra questo millennio ed il prossimo. Mi chiedevo se tra i suoi progetti futuri c'è la voglia di raccontare una storia che, più che incentrarsi sulla fine del millennio (cosa che Lei mi sembra stia facendo già da diversi anni), voglia invece raccontare qualcosa che apra il prossimo.

"No! Grazie per l'idea, ma non voglio scriverlo! Penso che oggi ciascuno dei miei film rappresenti quella che è stata e che ancora rimane la mia, vera, reazione personale di fronte agli accadimenti esterni in quel preciso momento della mia vita. Quindi, certamente, quella che è la reazione del mio personale microcosmo rispetto a quello che succede nel mondo in ogni specifico momento."

Avevo già visto "Fear and Loathing in Las Vegas" allo scorso Festival di Taormina…

"Sta scherzando? Io non ne sapevo niente! Peccato, perché in quel periodo ero in Italia, ci sarei andato."

Da non crederci! Comunque, quello che volevo dire era questo: il suo film è stato presentato nel luglio dello scorso anno, e raggiunge le sale italiane dopo parecchi mesi. Un po' come successe l'anno prima a "Lost Highway" di David Lynch, sempre passato per Taormina e poi "congelato" nelle mani della distribuzione per un anno. Secondo Lei, quali motivazioni potrebbero esserci dietro, economiche, o piuttosto legate ai temi di non facile "digeribilità" presenti in entrambi i film?

"Non conosco i motivi di questa scelta e del resto la Cecchi Gori è un mondo a parte. Ma in realtà l'intera distribuzione italiana è un terno al lotto e non si sa mai quando effettivamente un film verrà distribuito. I distributori italiani non si preoccupano minimamente di informare i registi, tanto che spesso il pubblico sa prima di noi quando un nostro film arriverà nelle sale."

(Intervista realizzata da Federica Arnolfo in collaborazione con Antonello Sechi e Francesca Caraffini di Virus)