Reporter

NearDark - Database di recensioni

Africa

Godard Tracker


Tutte le
Rubriche

Chi siamo


Reporter
reportage da festival ed eventi, interviste e incontri
<<< torna al sommario

Attualità, angustia e la capitale
Il Festival internazionale del Cinema di Berlino 2009
3 - Mangiare nell’ottica della crescita

Semmai ad un certo punto è ortodosso fare il punto della Berlinale. Se non all’inizio perlomeno qui. Partito come una competizione, il Festival di Berlino è andato aggiungendo sezioni in corso d’opera sino ad approdare ad una conformazione grossomodo stabile: Competizione (e vari Speciali o Fuori Concorso al suo interno); Berlinale Corti, in competizione o meno, trasversalmente alle varie altre sezioni; Panorama, cioè cinema d’arte per il pubblico più attento, comunque per certi versi ancora su larga scala; Forum, vale a dire sezione cinefili e cinemaniaci; Generation, divisa in due competizioni e rivolta a cineasti e pubblico giovanile, non senza una punta di paternalismo della serie “avvicinatevi al cinema, vacui figli della contemporaneità privi di prospettive”; Prospettive del Cinema Tedesco, compito della quale sarebbe monitorare dove va e cosa fa per l’appunto il cinema crucco, target tacito rimanendo di fatto l’autopromozione e un certo qual grado di sciovinismo che non disturba; e Retrospettive, a cura del museo del Cinema di Potsdamer Platz, la quale intuitivamente offre uno spazio all’interno del cui piazzare versioni restaurate o cimeli a più vario titolo eccetera, non dovendo mai andar dimenticato che la manifestazione è pur sempre anche una faccenda economica e di budget e che il danaro non fa schifo da nessuna parte e dunque neppure qui.

Queste sezioni, come per ogni Festival, andrebbero poi con calma capite. La Competizione si traduce allora in puri e semplici affari internazionali, peraltro spiccatamente atlantisti come per triste regola da secondo dopoguerra, che dura ancora.Panorama diviene per certi versi il vero Festival, quello pregnante, ospitando una competizione finalmente reale, tanto sotto il criterio geografico (c’è finalmente tutto il mondo) quanto sotto quello metodologico (ad esprimersi è chiamato direttamente il pubblico, senza mediazione di giurie ruffiane o chi per loro). Forum è invece il fascino conturbante ed irresistibile della Berlinale rivolta ai dotati di cognizione di causa; nel corso degli anni, i passi più eclatanti hanno pestato tutti qui. Generation e Prospettive, va da sé, raccolgono gli aspetti epifenomenici del carrozzone: un po’ mercato delle pulci del Festival, un po’ la grotta del tesoro per gli speleologi cinematografici più pazienti, può contenere con la stessa probabilità perle inestimabili e kilometri di carbone e gas puzzoni. Retrospettive, per concludere, da un po’ atto di come certe volte Storia significhi solo Schiavitù, per tutti i motivi nietzschiani che sappiamo e che qui non è davvero il caso di riprendere in mano o elencare - pensare solo al tema di quest’anno, il 70 mm ovverosia “grande Cinema”, mehr ist immer besser.

Food, Inc.

A tutto ciò, si sono quest’anno affiancate due ulteriori costole: un interessantissimo Talent Campus con workshops e lezioni magistrali di editing e tecniche cinematografiche; ed il Kulinarisches Kino, “Cinema Culinario”, cartello di film a vario titolo connessi al tema dell’ alimentazione declinata in termini di salutismo e, soprattutto, equità. Ci risiamo pertanto con il già accennato dilagare di Berlino nella Berlinale, connotato questa volta dalla sghemba interpretazione Berlinese dell’equazione tra cibo e politica, che è stato il presupposto tanto del boom dei Bioladen affamapopolo di cui esplode la stilosa ed irritante Prenzlauer Berg, quanto dell’attenzione alle tematiche di ecologia alimentare che imperversa sui magazine che contano e che in qualche modo sta finendo col conformare una nuova coscienza politica giovanile a partire dallo stomaco. Di qui il successo senza regola dell’equazione cibo-cinema, risoltasi nel tutto esaurito a poco raggio dall’inaugurazione e per ciascuna delle proiezioni in programma nel corso delle due settimane di Festival. Di qui, ancora, le odi tessute dalla stampa preposta ad un documentario come Food, Inc, incentrato su soliti OGM e soliti ormoni, risapute multinazionali e risentiti governi menzogneri: ben fatto, ottimamente coordinato, ma pur sempre qualcosa di così visto e consunto da intristire.

È stato però precisamente all’apertura di questo tronco, di questa nuova e paracula costola berlinalica, che Kosslick ha destinato l’unica partecipazione italiana purosangue di quest’anno, cioè Terra Madre; conferendole per giunta l’onore della propria presenza fisica, a scopi introduttivo-didascalici nonchè, si suppone, politici, nella misura in cui è ben saggio tenersi buono un Paese che di Festival che contano ne ha a propria volta una manciata. Per ciò ed altro, prendere più lungamente in considerazione il nuovo lavoro di Ermanno Olmi non è improprio. Si può allora cominciare da quanto il regista ha di proprio pugno scritto: Al Forum di Terra Madre ho riconosciuto i contadini come li ricordavo nelle nostre campagne al tempo della mia infanzia, esternazione che mette già in chiaro quasi tutti i parametri dell’opera. Innanzitutto l’intento documentale: cogliere le proporzioni del fenomeno Slow Food e di ciò che Carlo Pertini è stato in grado di farlo diventare, mediante un reportage più evocativo che cronachistico dell’assise Madre Terra nelle sue edizioni del 2006 e del 2008. Subito dopo, però, la chiave di volta personale, la dimensione umana e il tocco d’autore, risolti tutti quanti nell’ultima mezz’ora di pellicola, dedicata a ritrarre la quotidianità contadina di un uomo a stretto contatto col proprio campo.

Terra Madre

La visione del film di Olmi è spiazzante: documentario quasi arrabattato per la sua gran parte (tocca il punto di minimo con dei cut&paste dal Mondo di Quark), retoricamente terzomondista e critico con poca ispirazione, come quando narra la vicenda del falegname isolatosi dal mondo ai bordi della statale, ripone però in chiusura un mirabolante cambio di toni e registro e si trasforma in cinema, probabilmente “grande”, immergendosi nei motori della vita mediante un elegante climax visionario di succedersi di stagioni ed armonizzarsi di elementi che culmina col fenomenale ritratto di un infante. Quest’ultimo, nudo, procede gattoni tra le piante, strabuzzando gli occhi dinanzi al colore di un’albicocca ed alla liscia rotondità degli ortaggi più comuni: anche il contadino vuole guadagnare, segue Olmi, ma il suo attaccamento alla terra è anche un atto d’amore ed è in questo sentimento solidale che si genera il rispetto della Natura. A questo rimbombo responsabilizzante, eo facto appaiato a più colpe originarie ed eo ipso paradigmaticamente incentrato sul tempo corrente, che è un tripudio di Al Gore e Kyoti non rispettati, esosi piani di riassestamento energetico, eco disastri ed eco vendette globali, hanno risposto molti altri film in programma. Armonizzando il peana su di un’unica tonalità e rendendolo talvolta finanche assordante. È questo dunque il caso del controcanto politicizzato fornito dal canadese L’encerclement, anch’esso “documentario monco” e però di ottima fattura, imperniato su di un duplice tentativo, di archeologia della dottrina neoliberista da una parte, di monitoraggio degli effetti e della penetrazione di quest’ultima nella storia e geografia politica attuale dall’altra; ma è anche il caso di un contrappunto assai più estetico e ficcante, quello di Sweetgrass, che ci ha lasciato cardiacamente ammirati.

Sweetgrass

Frutto del connubio tra un accademico ed un’artista decisamente poliedrica, al secolo Lucien Castaing-Taylor ed Ilisa Barbash, “l’Erba Dolce” merita di essere menzionato proprio qui per l’essere a propria volta un documentario. Il suo oggetto è però assai più semplice e lo è direi quasi invincibilmente, perché si tratta soltanto di pecore. Aperto dunque dall’espressione ignava di una di queste, che fissa l’obiettivo in maniera così cinematica che neppure dopo anni del miglior Actor Studio, il film evolve in un monitoraggio spurio del ciclo vitale delle pecore del nuovo millennio e di coloro che se ne prendono cura, cioè una manciata grotteschi cow boy da piena età del riflusso, ampiamente spoetizzati e rappresentanti poco più che la propria funzionalità economica. Queste pecore sono dive lanuginose e vere protagoniste; invadono gli schermi a valanga, alla maniera delle grandi folle nei classici cinematografici sull’antica Roma, ed il grandangolo che le accoglie brulica di esse fino alla soglia dell’ipnotico, a più riprese scavalcata. Nel silenzio e nell’assenza di posizione, per certi versi, ci sono ancora i medesimi concetti ripetuti da molte altre features del Festival: dall’istanza naturista al richiamo alla responsabilità, fino al propinamento di mille nuove etiche con milioni di nuove parole e linguaggi. Solo che qui quei concetti appaiono nel loro tònos puro, sfrondati di ogni orpello o ramificazione e pertanto diretti a gran velocità al nucleo più recondito dell’intelletto: comprensione estetica, di quella che alimenta da sempre le fantasie di Herzog, per un’orchestrazione filmica tanto visionaria e al contempo limpida da conferire all’opera un carattere prezioso e raramente tale.

Treeless Mountain

C’è però ancora un film da ricordare, pertinente all’asse tracciato, ed è Treeless Mountain della koreana So Yong Kim. In modalità dichiaratamente autobiografica, la regista mostra l’alternarsi delle vicende di due sorelle, Jin e Bin, abbandonate al loro destino da una madre incosciente partita alla ricerca dell’ex compagno. Le bambine, adorabili nei loro tentativi di darsi da sè un qualche tipo di ordine, vengono affidate alla zia alcolista, personaggio metropolitano ed estremamente negativo. Costei le trascura, venendo innanzitutto meno al dovere etico primario, sovraordinato per antonomasia, cioè quello di nutrirle. Jin e Bin allora, disperdendosi incontrollate nei meandri del quartiere, cominciano a catturare cavallette e le cuociono sul fuoco vivo, prima per mangiarle, poi addirittura per venderle. Lo stato di deiezione in cui So Yong Kim le ritrae lumeggia un ambiente casalingo e metropolitano inadatto alla vita spontanea, alle pulsioni biologiche primarie di un bambino: in questo senso, le locande non offrono loro da mangiare, le strade non intendono ospitarle e la “montagna senz’alberi” cui accenna il titolo, un cumulo di detriti e sabbia di poco più di due metri, non concede fioriture al ramo che le due, ingenuamente, hanno voluto piantarvi.

Deprivazione di pulsioni umane o umanizzanti, sottrazione costante di movenze di cuore, istintuali, dalla finzione scenica a risalire, fino all’occhio della camera da presa che gela e scricchiola nel suo distacco sfiorando parossistiche estetiche della contemplazione; tutto passa la misura quando la zia cattiva decide di sbarazzarsi delle bambine e le sbologna ai nonni, due vecchi asserragliati in una catapecchia di campagna ai confini dell’umana civiltà. Proprio qui però, come a chiudere cerchi che oltrepassano il film e lo includono in un progetto più ampio, si apre uno spazio che potrebbe consentire alle bambine una prima transizione dall’infanzia alla giovinezza. Nella dimensione crepuscolare che accoglie la rugosità della nonna contadina, il calore emanato dalla fuligginosa stufa di metallo e le bucce da scalfire ed eliminare per poter accedere al nutrimento, parametro base o sine qua non dell’alimentazione su base autarchica, il viso di Jin sembra smaltire per la prima volta il punto interrogativo che lo corrugava e sostituire ad esso la curiosità e l’adattamento – con semplicità, naturalmente, la coscienza che tutto ciò che si desidera va probabilmente guadagnato.

Giordano Simoncini