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LA GUERRA ASIMMETRICA DI BUSHARON
(pag. 4)

3: Grounds diversi, la simmetria

L'effetto finale non differisce molto dall'ammasso contorto di metallo e cemento a Ground Zero: centinaia di vittime, in maggioranza persone inermi, impastate con le macerie... Un film praticamente autoprodotto. Un autore, Mohammad Bakri, approdato da poco alla regia, assai più noto per i suoi intensi ruoli cinematografici. Un documento duro, incentrato sulle testimonianze delle vittime, un grido d'accusa corale contro la brutalità dell'occupante. Un artista da sempre scomodo, perché comunista, perché palestinese ma con passaporto israeliano, uno che non sta zitto e che denuncia. Non un film-inchiesta, all"anglosassone", semmai un film-urlo. Protagonisti le macerie e la rabbia dei sopravvissuti. Inutile dire che Jenin... Jenin non è stato mostrato ai parlamentari europei, non ha suscitato l'avvio di un'inchiesta indipendente, circola soltanto grazie all'impegno personale dell'autore. In Israele poi non circolerebbe affatto, visto che è stato colpito dalla censura governativa (10), non fosse per qualche vecchio pacifista come Uri Avnery che osa ancora sfidare certi divieti. Mohammad Bakri non ha ricevuto nessun premio, anzi, è stato fatto oggetto di pesanti intimidazioni da parte dei servizi israeliani. Il suo collaboratore e produttore esecutivo, Iyad Samoudi, è stato assassinato dall'esercito israeliano il 23 giugno, al termine delle riprese.

Ma tra i due documentari vi sono più convergenze che non differenze.
Doran, che si rivolge chiaramente ad un pubblico occidentale, ha un gran mestiere, protegge le proprie fonti di informazione, scansiona ripetutamente i fatti, procedendo in un lento accumulo di importanti indizi... Ma avrebbe potuto anche risparmiarci di "autocertificare" l'esistenza di ulteriori e definitive prove video che non è stato in grado di procurarsi, mettendo oltretutto a repentaglio l'incolumità del proprio collaboratore afghano...
"Massacro a Mazar" è quindi un lavoro molto serio ma non così "definitivo" come può apparire.
Di "Jenin... Jenin" per qualche tempo ho pensato come a un'occasione mancata. Dentro di me avevo alimentato l'aspettativa di un macigno che potesse schiacciare gli israeliani, gli USA e l'intera comunità internazionale sotto il peso delle proprie responsabilità, rendendo giustizia ai palestinesi di 54 anni di occupazione militare... Davvero un po' troppo per un documentario, girato oltretutto in condizioni proibitive, in un luogo dove nemmeno una commissione ufficiale dell'ONU ha avuto accesso. Oggi credo che Bakri non potesse fare di più e di meglio; quel che gli importava, registrando le parole e gli sguardi di testimoni che non si coprono il volto e che anzi dicono il proprio nome e raccontano la propria storia, era descrivere il dolore e l'incredulità ma anche il coraggio e la voglia di vivere di «un popolo che ha sette anime: ogni volta che muore rinasce più giovane e bello» (Tewfiq Zayad).
E le prove definitive ed inoppugnabili del massacro?
Stanno lì, sotto i nostri occhi. Sono le immense macerie e la rabbia dei sopravvissuti.

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