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Les Sanguinaires
Anno: 1997
Regista: Laurent Cantet;
Autore Recensione: adriano boano
Provenienza: Francia;
Data inserimento nel database: 10-01-2000


Cinema francese

Les Sanguinaires

Regia e sceneggiatura: Laurent Cantet
Sceneggiatura: Laurent Cantet e Gilles Marchand
Fotografia: Pierre Milon
Montaggio: Robin Campillo
Suono: François Maurel
Scenografia: Alain Tenenbaum
Produzione: La Sept ARTE, Haut et Court, WFE, CNC, PROCIREP
Interpreti: Frédéric Pierrot, Catherine Baugué, Djallil Lespert, Marc Adjadj, Nathalie Bensard, Vincent Simonelli, François Lepage, Elisabeth Joinet, Gilles Marchand, Isabelle Coursin,Aurélia Doudeau, Virgile Biechy, Jean Marc Fattaccio, Luckie Royer, Michaël Royer, Manon Lepage, Marie Cantet
Provenienza: Francia
Anno: 1997
Durata: 68'
Distribuzione: Lab80




Laurent Cantet è un regista che ama descrivere gruppi di persone comuni, limitando lo spazio nel quale si svolge l’azione: nel film presentato a Torino li rinchiude in fabbrica, qui invece li aveva spediti su un'isoletta del Mediterraneo: al faro s’innescano tutti i meccanismi tipici di una convivenza forzosa. In questo caso la soluzione del plot gli riuscì meglio con una bella evoluzione del protagonista, da entusiasta yuppie a scontroso ed inquieto eremita, che vorrebbe imporre a tutto il gruppo una coerenza monastica ispirata ad una reale adesione al suo sogno di rifiutare il divertificio becero, lo stereotipo millenarista, il brindisi serializzato. Egli immagina di recuperare rapporti umani, isolandosi con gli amici e finisce con il beccarsi del fascista per il suo atteggiamento oltranzista:

L'utopia è bellissima, ma queste regole sono insopportabili

Sono io il tiranno; in nome della libertà individuale

Il suo entusiasmo è contagioso solo all’inizio, quando la sua e-mail di convocazione per il lungo ponte di fine 1999 termina sulle immagini del mare e già l’isola s’intravede sull’orizzonte, spazzando qualunque orpello tecnologico; poi tutto si evolve drammaticamente quasi come se fosse un 10 piccoli indiani intimista e senza alcuna decimazione…o forse sì? Purtroppo non bisogna pretendere troppo, i vezzi francesi del cinema rohmeriano in assenza del tocco dell’originale ci sono tutti: ragazzi in crisi adolescenziale, quarantenni in vena di nostalgia, donne sempre disposte a comprendere, ma fatalmente relegate in ruoli comprimari, alle quali solo alla fine risulta chiaro quanto avevano captato senza riuscire a dare forma al disagio ("Verresti con me su un'isola deserta?" è la richiesta spasmodica di François, che Catherine coglie al volo irrazionalmente, per intuito, ma poi non ha la forza di seguirlo fino in fondo; qualunque cosa sia quella fosforescenza evocata e non meglio identificata), né tantomeno immaginarne la soluzione. Apprezzabile è il fatto che anche lo spettatore difficilmente riesce a inferire il tocco magico del finale del film, nonostante la ctonicità dell’ambiente, la presenza del giovane Stephane, guardiano del faro e fin troppo smaccato simbolo delle pulsioni naturali (sesso, cibo, pistola: elementi un po’ rozzamente infilati uno dietro l’altro con un’insistenza che lo rende odioso), un selvaggio da cui è ammaliata la giovane compagna; e nemmeno si può razionalmente dirimere l’ambiguità della soluzione finale, che lascia spazio a svariate interpretazioni, tutte comunque apprezzabili epiloghi per il personaggio di François.


Il versante dedicato alla carenza di comunicazioni è un po’ scontato e sopra le righe risulta essere la reazione all’accensione della radio, recepita come oltraggio alle regole, in funzione della creazione di una figura biliosa, che però gradualmente diventa eroe positivo, febbrile nella sua intuizione di una qualche rivelazione tutt'altro che messianica: infatti proprio questo aspetto delle norme ferree, disattese da tutti tranne che dal protagonista, sono la chiave che consente solo a lui una comunione con la natura e il passaggio epocale meno distratto dalla cose mondane e dall’isterismo collettivo attraverso il varco magicamente aperto di una comunione panica possibile soltanto attraverso il lento ritirarsi dal mondo fino a scomparire. Solo lui manterrà la giusta dimensione per salvaguardare l’occasione offerta dalla congiunzione di eventi, che si era preparato ad affrontare.

La regia alterna situazioni insostenibili a momenti memorabili, come nella notte in cui Stephane si allontana con il gommone: l’intera isola è immersa in un silenzio che viene sottolineato per acuire l’enormità della mancanza di rumori innaturali; infatti sarà proprio nel silenzio, che il protagonista ribalterà il verdetto derivato dal confronto dialettico che lo aveva posto in disparte, minoranza irriducibile alla mediazione con la mediocrità, gradualmente scomparendo a partire dall’azzeramento della propria espressione vocale. Lo stillicidio dell’autorevolezza di François segue una china che è costellata di episodi risaputi, però alcune immagini che ne ritraggono la solitudine restituiscono così nitidamente l’emozione ricercata da riscattare l’espediente deprimente di costringere ciascuno dei convenuti riuniti in una sorta di autocoscienza a pronunciare quale fosse la loro idea di Duemila quando erano più giovani. Altro momento imbarazzante per lo smaccato simbolismo che stona con il resto del racconto è la raccolta di orologi, affidati poi proprio a François, signore del tempo fermato, che a posteriori li restituirà quasi come una solenne ultima beffa per la mondanità ancora regolata dal tempo, nonostante il rito del passaggio di millennio officiato. Si direbbe proprio che Cantet si voglia mettere alla prova con situazioni corali, incorniciate con cura tra stipiti di porte e panorami mozzafiato in aperto contrasto con la claustrofobica situazione del faro, e riesca bene invece nelle introspezioni, tanto che anche le colazioni in cui si vorrebbero far scorrere tensioni, mostrare conflitti, risultano assemblaggi di singoli solipsismi e persino quella sequenza di messa in scena di se stessi si risolve in monologhi da cui emerge solo la paura di essere diventati esattamente ciò che si temeva di divenire.

François fa resistenza esattamente a quella deriva, opponendo il proprio coerente radicalismo: solo perseverando senza recedere dagli ideali e dai precetti che ci si è dati, si possono rigettare tutti i compromessi, rifiutare le schiavitù del progresso, le sirene della civiltà (un adolescente esprime la sua ribellione all’impostazione della comunità voluta da François attraverso l’ascolto del walkman, che era uno degli strumenti al bando) e le celebrazioni rituali.