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Fuga da Los Angeles - Escape from L.A. Anno: 1996 Regista: John Carpenter; Autore Recensione: l.a. Provenienza: USA; Data inserimento nel database: 18-03-1998
Escape from L.A. (Fuga da Los Angeles),
di John Carpenter. Sceneggiatura, J. Carpenter, D. Hill, K. Russell.
Con K. Russell, S. Keach, S. Buscemi, V. Golino, P. Fonda. Usa,
1996.
Disincantato, Anarchico, Devastante
CHIAMAMI JENA
"Fuga da Los Angeles" è forse il film più politico
di John Carpenter; è sicuramente il suo film più
esplicitamente politico. E' grazie a questa iniezione contenutistica
e all'arma dell'autoironia che Carpenter è riuscito a far
coincidere sequel, remake e parodia senza che il
prodotto finale mancasse di smalto e mordente rispetto al capitolo
precedente. Le trame di "Fuga da L.A." e "Fuga da N.Y."
sostanzialmente coincidono: Jena Plissken, eroe del terzo conflitto
mondiale divenuto in seguito un ricercatissimo fuorilegge (versione
futuribile del reduce disadattato), deve ottenere l'annullamento
della propria pena portando a termine una missione impossibile,
ovvero ritrovare qualcosa e qualcuno in un'isola divenuta carcere di
massima sicurezza (stato nello stato, senza contatti con l'esterno;
discarica umana di reietti e feccia autogestita, regolata dalla
semplice "legge del più forte"). Al recupero di questi due
macguffin è legato l'equilibrio mondiale: salvare il
Presidente ed una cassetta top-secret, a N.Y.; eliminare la ribelle
figlia del Presidente e tornare in possesso di un sofisticato
tele-comando di un sistema di difesa ed offesa mondiale, a L.A.
Carpenter imbastisce una fittissima rete di rimandi intertestuali tra
il primo ed il secondo episodio, tanto da dar corpo ad un
sequel che rasenta il remake, ma riscattandosi
attraverso una massiccia dose di autoironia e calcando sui risvolti
comici dell'avventura, dei personaggi, dell'azione, varcando ogni
limite, esagerando ogni tratto del modello; arrivando, infine, a
confezionare quasi una parodia dell'opera precedente. Ma la
forza di "Fuga da L.A." risiede nel furore disincantato,
dissacratorio, radicale con cui colpisce ogni ideologia, qualsivoglia
forma di ordine potere controllo, istituzioni, simboli, mitologie,
valori, costume... Non sono il progresso e la tecnologia che hanno
portato alla catastrofe (all'"oggi", come sottolineano le didascalie
introduttive di entrambi i lavori): è l'Uomo, la sua sete di
potere che non può che coincidere con la sopraffazione (tanto
è vero che l'unico strumento valido per mantenere la pace nel
mondo è l'intimidazione, la minaccia grazie a sempre
più sofisticati sistemi di offesa propagandati come sistemi di
difesa). Ogni forma di convenzione, di ordine, di istituzione
è sempre finalizzata al dominio; la politica, la morale, la
religione, la scienza, la conoscenza sono le armi più comuni
per sottomettere le masse; i media sono gli strumenti privilegiati di
questa sopraffazione, permettendo il controllo delle menti, delle
idee; la libertà è nulla più che un pretesto per
omologare ulteriormente. Carpenter non propone alternative, né
ipotesi di mondi migliori: proclama valido solo il nichilismo.
Abbiamo oltrepassato il punto di non-ritorno, siamo votati
all'autodistruzione: non resta che "staccare la spina", ripiombare
nell'oscurità e ricominciare da capo. Sperando che la Storia
non si ripeta identica a se stessa, per l'ennesima volta. Se la New
York del 1997 rappresentava un atto di accusa contro un sistema che
preferiva negare l'evidenza piuttosto che ammettere i propri limiti,
e non trovava migliori soluzioni al proprio male che
istituzionalizzarlo (concedendogli un territorio ed una
dignità di Stato), inglobandolo dentro se stesso,
seppellendolo dietro un muro di cinta come un macro-ghetto necessario
(denuncia strettamente legata alla realtà americana); la Los
Angeles del 2013 ha una dimensione quasi allegorica, e riproduce un
intero sistema mondiale, con chiari riferimenti alla Storia, alla sua
evoluzione, ai suoi corsi e ricorsi, ai suoi cortocircuiti. Un nuovo
muro separa ideologie che immediatamente vengono denunciate come
paraventi per obiettivi analoghi nei diversi schieramenti: il
controllo, il potere. Da una parte abbiamo un Presidente degli Stati
Uniti ex-telepredicatore, pronto a sacrificare la propria unica
figlia per non danneggiare la propria immagine e credibilità
politica; dall'altra un rivoluzionario di sinistra, praticamente
identico a Che Guevara, a capo di una cordata di Paesi Mediorientali;
la figlia ribelle del Presidente degli States è una acerebrata
dal nome Utopia. Con-fusione: né destra, né sinistra,
nessuna contrapposizione tra capitalismo e comunismo; nessuna
coscienza: l'ideologia è dichiaratamente uno strumento, la
libertà un fantasma da agitare davanti agli occhi degli
stupidi. Un vero e proprio disastro; e non c'è neppure
un'età dell'oro da rimpiangere: l'hippie interpretato da Peter
Fonda (Easy Rider) è un sopravvissuto di un'altra epoca, una
sorta di spettro di quello che fu Capitan America, un monaco della
tavola che aspetta da una vita la grande onda da cavalcare col suo
surf per svanire, ma non ha nessun ruolo influente nello sviluppo
della vicenda, nessun valore di antagonismo; viaggia parallelo col
suo surf alla strada maestra come un'apparizione psichedelica e nulla
più - mentre Jena dal surf salta sull'auto in corsa, sulla
terra ferma. Ormai senza coordinate, e soprattutto senza la
possibilità di recuperarle, il mondo del 2013 di Carpenter
viaggia a tutta velocità verso la catastrofe: non c'è
più spazio per una coscienza; c'è solo una massa
informe ed agonizzante. Il West è tornato selvaggio: e vi
arriva un cavaliere solitario, disilluso, disincantato, "l'uomo
più cattivo in un mondo cattivo" (come lo definisce
Carpenter); insomma, vincente. E come tale può decidere della
sorte degli sconfitti: sorta di nuovo creatore tecnologico e
anarchico (meglio, anticristo: il codice che digita è il
666) fa ripiombare il mondo nella notte dei tempi;
capovolgendolo; salvandolo, forse.
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