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Amistad
Anno: 1997
Regista: Steven Spielberg;
Autore Recensione: Giampiero Frasca
Provenienza: USA;
Data inserimento nel database: 27-04-1998


L’inizio è folgorante: una sequenza mozzafiato in cui si illustra come un manipolo di uomini di colore prenda possesso in modo violento della nave (la Amistad) che li sta trasportando negli Stati Uniti dove verranno venduti come schiavi

Amistad

Tit. or.: id. Regia: Steven Spielberg. Dal romanzo: Black Mutiny, di William Owens. Sceneggiatura: David H. Franzoni (e non accreditato: Steven Zaillian). Fotografia: Janusz Kaminski. Musica: John Williams. Scenografia: Rick Carter. Costumi: Ruth E. Carter. Montaggio: Michael Kahn. Prodotto da: Debbie Allen, Steven Spielberg, Colin Wilson. Cast: Morgan Freeman (Theodore Joadson), Nigel Hawthorne (Martin Van Buren), Anthony Hopkins (John Quincy Adams), Djimon Hounsou (Cinqué), Matthew McConaughey (Baldwin), David Paymer (Secretary Forsyth), Pete Postlethwaite (Holabird), Stellan Skarsgård (Tappan), Tomás Milián (Calderon), Anna Paquin (Queen Isabella). Effetti speciali: Industrial Light & Magic (ILM). Colore: Technicolor. Produzione: DreamWorks SKG/Home Box Office (HBO). Usa, 1997. Durata: 2h e 32'.

L'inizio è folgorante: una sequenza mozzafiato in cui si illustra come un manipolo di uomini di colore prenda possesso in modo violento della nave (la Amistad, appunto) che li sta trasportando negli Stati Uniti dove verranno venduti come schiavi. Piove copiosamente, i lampi dinamizzano la luce che illustra e rendi plastici corpi scultorei, mentre i tuoni danno il ritmo all'azione che, in questo modo, pare originarsi dalle viscere stesse della natura. Il montaggio è serrato, la scelta dei piani appare un po' inusuale per un cineasta come Spielberg: particolari ingranditi fino all'iperrealismo della carne che si stacca con inaudito dolore dai polsi e dalle dita incatenate degli ammutinati. Lotta esasperata ed efferata, gli africani s'impadroniscono tragicamente del vascello. Stacco, finisce la sequenza. E si affievolisce anche la portata del film. Molti attori famosi (Morgan Freeman, Anthony Hopkins, lo Stellan Skargard de Le onde del destino e Will Hunting, Matthew McConaughey, addirittura l'ormai calvo ed imbolsito Tomas Milian nei panni dell'ambasciatore spagnolo Calderon), costumi ottocenteschi, accurate ricerche storiche, ingenti mezzi e commento sonoro mai discreto per mettere in scena la vera storia del processo, e della relativa assoluzione di fronte alla Corte Suprema, a cui andarono incontro una ventina di uomini provenienti dall'Africa per l'ammutinamento della nave Amistad, al largo delle coste americane nel 1838. Spielberg ha il grosso demerito di fornire un'ennesima, didascalica, lacrimevole (che spesso fa troppo facilmente rima con stomachevole), bozzettistica ed elementare lezioncina di perfetta democraticità, condita dagli inevitabili e stucchevoli rimandi agli eterni valori universali di uguaglianza e pacifico vivere civile dell'ormai abusatissima Dichiarazione d'indipendenza del 1776. È da un po' di anni, infatti, che dall'altra parte dell'Atlantico giungono pallide ed inespressive opere di patetica correttezza politica, palesemente inefficaci quanto più è didattico il messaggio che esprimono. Nessun filtro metaforico, nessuna valenza ironica, mancanza assoluta di quella cattiveria che colpisce sempre il segno, Amistad diventa un inconsistente apologo che mira a promuovere la giusta causa dell'uguaglianza tra i popoli. Ma il cinema è un'arte che per esprimere compiutamente un concetto deve allontanarsi dal semplice piano denotativo, pena la sua validità. Ma quando Amistad tenta di farlo, il rischio di cadere nel ridicolo lo investe senza riserve: dialoghi inverosimili (a volte le differenze di lingua vengono scavalcate con non chalance in virtù di un'affinità elettiva data dal democratico obiettivo comune), scelte discutibili (il capo carismatico degli africani, pur essendo a conoscenza di un diritto di fatto differente da quello americano, pone quesiti legali legittimi ad avvocati esperti ma un po' distratti), parallelismi proposti pericolosamente (l'accostamento tra il possibile martirio dei neri e quello di Cristo; una Passione, tra l'altro, ricostruita attraverso le illustrazioni presenti su una Bibbia che gli africani assumono come simbolo della loro redenzione: una conversione a dir poco repentina). Ma anche senza voler fare tanto gli schizzinosi - o gli snob, a seconda dei punti di vista -, il film ha anche altre frecce spuntate al suo arco: un court movie in costume con tirate retoriche troppo lunghe ed insostenibili, personaggi senza alcuno spessore (Morgan Freeman su tutti), sottolineature emotive della macchina da presa che lasciano allibiti per la loro assoluta ridondanza. Quasi un'indignazione, che trova l'unico momento di soddisfazione nel riconoscimento di Tomas Milian come parte integrante del cast.

Giampiero Frasca