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The Gift
Anno: 2001
Regista: Sam Raimi;
Autore Recensione: adriano
Provenienza: Usa;
Data inserimento nel database: 13-03-2001


The Gift

The Gift



 



Regia:  Sam Raimi
Sceneggiatura:  Billy Bob Thornton, Tom Epperson

CAST

Kate Blanchett   ..........Annie
Giovanni Ribisi   ...........Buddy
Hilary Swank   ..........Valerie
Keanu Reeves   ..........Donnie
Greg Kinnear   ........Wayne
Katie Holmes   ........Jessica

Produzione: Paramount Pictures
Durata: 111'
Anno: 2001
Nazione: Stati Uniti

La cifra del film va ricercata in quel lampo che all'inizio, dopo che ci orizzontiamo nel luogo topico dell'immaginario filmico (le paludi del sud: le locations sono in Georgia), sembra squarciare la notte, rivelando qualcosa; in realtà è solo una percezione non isolabile, indistinguibile. Esattamente la sensazione che prova la giovane vedova, ma anche lo spettatore ulteriormente spaesato dal disvelamento finale, che non riveliamo (aderendo per la prima volta al dettato contro gli spoiler), perché in questo caso il significato del film sta nello scoprire autonomamente e nel preciso momento in cui il regista colloca quello sguardo sperduto la percezione di essere disarmati di fronte all'inspiegabile.

 

Quello che risulta apprezzabile è che immediatamente prima era stata costruita una gabbia logica nella quale tutti i tasselli andavano a coincidere con il disegno apparentemente razionale e quindi il deragliamento del senso sembrava rientrato: il trionfo della ragione, anche se perturbante permaneva il fatto che la donna assistesse a quelle immagini e provasse quel disagio che proviene dal "vedere" quello che è avvenuto o sta per avvenire in luoghi e tempi diversi. Invece l'inspiegabile impedisce la catarsi finale, rituffandoci in quel buio in cui brancoliamo quando assistiamo con gli occhi di lei alla ridda di situazioni e immagini provenienti da momenti (nel passato - che conosciamo come tale dalla trama svoltasi fino a quel momento - come nel futuro immediato - sperimentato con la soluzione) e luoghi diversi, senza avere modo di porre ordine a quelle sensazioni, quelle rivelazioni simili a quell'immagine folgorante del fulmine iniziale dalla quale ci sembra di poter trarre un'indicazione di eventi. In realtà poi la palude regna sovrana, comunicando una sorda inquietudine.

Il mestiere adoperato a piene mani non disturba la visione: le matite rotolanti in rallenti sul tavolo creano la dimensione giusta del racconto per introdurre le prime allucinazioni e venire richiamate dall'altro rallenti finale in cui le gocce di sangue colano estenuanti, quanto le locations descrivono bene l'atmosfera e i personaggi che si introducono volta per volta sono tratteggiati con essenziali tratti senza per questo venire ridotti a macchiette, anzi la voce calda di Keanu Reeves, normalmente in ruoli di gentile giovane seducente contrasta con il minaccioso omaccione che pesta la moglie e minaccia il figlio della donna e Buddy riesce ad essere un credibile psicopatico gentile e violento, disturbato e salvifico, con un trauma nascosto nel passato che segna la sua psiche e dunque in questo gioco sulla collocazione del presente si trova a occupare tutti gli spazi: il passato, a seguito della sua turba, il presente, trovandosi sempre nel momento giusto al posto opportuno (salva il bambino minacciato,…), manca della dimensione futura, fungendo da pietra miliare per limitare il film. Dunque la tensione si crea attraverso l'artigianato di Raimi che inserisce nel primo vaticinio non rivelato già i dettagli dell'unico omicidio perpetrato prima ancora che avvenga e poi si mantiene rinviando sempre a un qualche elemento che permette di arguire allusioni ad altro, sia essa la donna anziana che attraverso lo schermo del lenzuolo valica la soglia della realtà, apportando ulteriore inquietudine, sia la patina di scetticismo incarnato dallo sceriffo - non a caso nell'evoluzione del personaggio proprio a lui è affidata la battuta finale che rende inspiegabile la soluzione razionale - o manifesta il suo mestiere nella lunga perlustrazione della casa dove qualcuno ha disegnato sul letto "Satan", mentre una voce salmodiante recita preghiere e arringa contro i servitori del diavolo. Quindi oltre alla lotta del presente contro il resto del tempo - parafrasando Kluge - si avverte il trascorrere delle tensioni a proposito della credibilità o meno dei fenomeni mostrati e l'intolleranza di fondo di quella contingenza locale: la solita provincia del sud degli Usa, condensata in quella fissazione di Keanu Reeves: "witch!", urlata a ogni piè sospinto; in fondo tutti, anche l'assassino, in un qualche momento dell'intreccio si trovano a richiedere di venire confortati dalle carte piene di simboli della protagonista, più confusa e spaventata di loro e contemporaneamente permane aleggiante la domanda dell'avvocato: "Is that fun?". Addirittura ella viene messa a parte di dettagli delle vite e scopate altrui anche senza il bisogno delle carte, a ribadire che le nostre conoscenze passano attraverso di lei e quindi alla fine avremo le stesse incertezze o finiremo con il "credere nei misteri della vita". Un po' barocca la figura fluttuante nell'aria vicino all'albero, ma dona un tocco fatato all'immaginario gotico, uguale alla Jessica ripescata nella palude e la lunga sequenza del processo si legittima solo perché è il luogo in cui è codificata la razionalità del giudizio e che pertanto ratifica la propria fallibilità, dovuta alla assenza di elementi irrazionali nel suo procedere e la cui indagine non va mai procrastinata, come sottintende l'episodio in cui Buddy vorrebbe trovare la soluzione al suo problema e lei non coglie l'attimo, scatenando la sua furia: "Ormai è tardi, non hai voluto ascoltarmi ieri". Altrettanto topico è il luogo-vasca o i colpi da maestro nelle apparizioni e le sovrimpressioni, che sbilanciano il thriller più sul versante gotico, mantenendo però ben chiaro come intento principale il tentativo di far cogliere le manifestazioni soprannaturali come fossero reali, in funzione del finale che è quintessenza di questa commistione, senza la quale sarebbe incomprensibile.

Ci sono momenti in cui sembra che gli sceneggiatori vogliano chiamare a testimone lo spettatore del loro lavoro: in Memento questo avviene per tutto il film, The Gift invece ha una sequenza che contiene tutto il film fin lì trascinato dal proiettore, in corso e proiettato nel futuro; lì si confondono tempi, attimi, luoghi, situazioni e personaggi. Ancora non è svelato l'arcano e la soluzione potrebbe ragionevolmente vedere qualunque colpo di scena e quelle inquadrature di anticipazione non ne precludono alcuno: lo sceneggiatore decide di svelare il proprio lavoro e ammassa tutti i tasselli a sua disposizione in ordine sparso, li concentra nel momento di maggior tensione, miscela tutto il materiale di cui è in possesso e lo mescola, lo impasta organizzando una delle sequenze più visionarie della storia del racconto gotico, poi quasi senza soluzione di continuità comincia a sciogliere il bandolo e cominciano a scorrere quelle stesse immagini già viste non montate in modo lineare, che cominciano a sciorinare un senso, riproponendosi secondo una ricostruzione che rimette a posto il bailamme e l'accozzaglia di immagini, spiegato pianamente, ma prima non si ha idea di come vada organizzata l'inquadratura subliminale, il movimento o il colpo che viene ristampato nella sequenza lineare che "il dono" aveva fatto diventare un vero casino di ricordi e premonizioni. Solo che l'ordine viene dato da un montaggio che fa entrare un salvatore impossibile.