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Traffic
Anno: 2000
Regista: Steven Soderbergh;
Autore Recensione: Federica Arnolfo
Provenienza: USA;
Data inserimento nel database: 12-03-2001


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Traffic
Di Steven Soderbergh

Lo scorso Festival del cinema di Torino ci ha offerto la visione di due pellicole che affrontavano il tema della droga e della dipendenza: "Grass" di Ron Mann e "Requiem for a Dream" di Darren Aronofski. Due film piuttosto diversi, un collage di documenti il primo, che parlava esclusivamente della marjuana e dei patetici tentativi degli Stati Uniti di vietarla mettendola sullo stesso piano delle droghe piu' pesanti, una visione allucinata il secondo, che attraverso uno stile personalissimo fatto di split screen, montaggi incrociati, primissimi piani impossibili ci gettava di peso nel baratro della dipendenza.

"Traffic" di Steven Soderbergh mi ha ricordato, a piu' riprese, entrambi. Il regista incastra tre storie, facendone ogni tanto sfiorare i personaggi (vorrei dire alla "Magnolia", se non fosse che ormai persino Muccino si e' impadronito del trucchetto svilendolo alquanto), e tre punti di vista: quello di un avvocato di grido schierato sul fronte "contro" e nominato dagli USA zar dell'antidroga, ma costretto a scendere a patti con una realta' tutt'altro che facile (impossibile non pensare al bel viso della Connely costretta a pratiche sessuali piu' o meno lecite da un pusher di colore quando vediamo la figlia di Douglas in una scena quasi-fotocopia) - quello della moglie di un pezzo grosso del traffico internazionale (a capo di uno dei principali cartelli) - quello di un piccolo poliziotto costretto a fronteggiare il contraltare messicano di Douglas (salvo che questi e' corrotto fin nel midollo, ed ogni sua mossa e' tesa a mettere al tappeto un cartello per portare alla ribalta l'altro). Per separare le tre storie Soderbergh fa uso del colore, virando la pellicola sul blu nel primo caso, sul rosso nel secondo, sul giallo nel terzo, e dei movimenti di macchina: quasi fissa nel primo caso, mossa ma fluida nel secondo, a spalla e frenetica nel terzo. Senza arrivare alle scelte spesso estreme e comunque difficili de "L'inglese", Soderbergh continua a fare un uso molto personale della regia e dello stile di ripresa, narrando per immagini una storia che non ha un inizio e - molto intelligentemente - non ha una fine, che alterna momenti di estremo cinismo (il generale Salazar che afferma che i drogati si curano da se' - morendo di overdose), a momenti di commossa partecipazione (Douglas che capisce finalmente con cosa ha a che fare quando si ritrova il nemico in casa - e come suona diversa questa frase nella sua bocca rispetto a quando astutamente la pronuncia il suo consigliere suggerendogliela per toglierlo dai guai).

Film maturo, che paga il contentino ad Hollywood facendo recitare la neo-coppia d'oro Douglas-Zeta Jones (facendola recitare davvero! Io, che non amo Michael Douglas, sono costretta ad ammettere che in questa stagione ha interpretato due ruoli in modo magnifico: questo e quello del professore sfigatissimo di "Wonder Boys"), proponendosi come valido avversario del gladiatore scottiano (al quale tuttavia, a scanso di improbabili sorprese, riuscira' difficilmente a strappare qualche statuetta).