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Traffic
Anno: 2000
Regista: Steven Soderbergh;
Autore Recensione: adriano
Provenienza: USA;
Data inserimento nel database: 12-03-2001


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Regia:  Steven Soderbergh
Sceneggiatura:  Simon Moore, Stephen Gaghan
Fotografia:  Steven Soderbergh
Musiche:  Cliff Martinez
Montaggio:  Stephen Mirrione

CAST

Michael Douglas   ..........Robert Lewis
Catherine Zeta-Jones   ...........Helena Ayala
Steven Bauer   ..........Carlos Ayala
Don Cheadle   ..........Montel Gordon
Benicio Del Toro   ........Javier Rodriguez
Dennis Quaid   ........Arnie Metzger
Tomas Milian   ........Colonello Salazar

Produzione: Laura Bickford, Marshall Herskovitz
Durata: 250'
Anno: 2000
Nazione: Stati Uniti

La serie di differenti tasselli del mosaico che Soderbergh riesce a intessere è montata con una maestria tale che è in grado di creare una tensione degna di qualunque thriller anche in assenza di un vero e proprio plot o di un'unica coppia di protagonisti, classicamente identificabili: infatti veniamo coinvolti in molteplici coppie solidali dislocate in luoghi diversi, che finiscono con l’interagire attraverso la ragnatela di eventi proposti incentrati sul traffico di droga, argomento vasto che trova modo in questo lavoro di ampio respiro (quasi tre ore di proiezione) di affrontare un po’ tutti gli aspetti di ciò che gravita attorno alla droga. E dunque seguiamo i coinvolgimenti di due poliziotti messicani – registrati nella loro lingua, con tutte le inflessioni pittoresche di quell’idioma – e dei due loro speculari statunitensi impegnati in inutili sorveglianze (un afroamericano e un ispanico) che si esprimono in quell’americano intuitivo dei non wasp, rappresentando l’aspetto divertente (e un po’ stereotipato) cui solitamente danno luogo le coppie di sbirri (ovviamente destinati alla tragedia per la morte sul lavoro di uno di loro: speculare da un lato e dall’altro della frontiera); di una donna sposa ad un faccendiere ricchissimo che si occupa – all’insaputa di lei – di pulire il denaro sporco e di un’altra coppia che vede il marito impegnato a livello federale nella lotta alla droga, ma con figlia tossicomane che forma un’altra coppia con un compagno di scuola altrettanto scombinato, nonostante le scuole esclusive; sono due persino i grandi “cartelli” messicani impegnati nel traffico da cui il titolo. Dalla congerie di percorsi centrifughi che tendono a esaltare aspetti diversi seguendo percorsi tangenziali in opposizione tra loro si va gradualmente formando un unico verminaio, da un lato e dall’altro di quella frontiera così labile, eppure a tal punto separatrice da alimentare il più invalicabile muro rimasto tra due universi: Tijuana (Paco Ignacio Taibo II ha tratto pagine storiche da quel limbo in Sueños de Frontera).

 

Quel confine è valicato molteplici volte dalla macchina da presa e con la stessa facilità dei traffici di denaro e droga, ma l’ausilio di una fotografia precisa nel mantenimento della sua impostazione funge da rigoroso spartiacque, riservando ad ogni singolo micro-intreccio la sua dominante, la sua cifra stilistica, l’impronta personale a tal punto maniacale che sappiamo ad ogni repentino cambio di situazione – anche senza l’ausilio delle didascalie, che puntualmente informano del luogo in cui si sposta l’azione – in quale delle tante frammentazioni di trama si viene catapultati. Un intreccio sezionato come su una tavola operatoria, dove è impossibile perdere il filo delle trame, ma che la struttura rende avvincente. La più evidente è quella potente fotografia contrastata virata sul giallo ocra violentissimo, a tratti talmente sovraesposto e scuro nelle macchie di più intensa ombra da risultare sporchissime concrezioni nere, che segue le gesta dei due messicani da cui prende l’avvio la pellicola; tuttavia anche gli altri personaggi possiedono cromatismi che li connotano: l’azzurro adamantino che avvolge le riprese relative all’ottuso Michael Douglas diventando quasi bianco sovraesposto nell’intreccio con la figlia; il vermiglio di Zeta Jones, il cui perenne vestito rosso contrasta con quello di Dennis Quaid, bianco avvocato prototipo del bastardo. Tutti utilizzi del colore in funzione narrativa, ma non perseguendo fini metaforici: tutte quelle tinte di universi artificiali che lasciano senza fiato per la loro uniformità all’interno del quadro sono semplici punti di riferimento che dapprima veniamo orientati ad attribuire ai singoli attori di quelle sequenze, poi in realtà si rivelano essere emanazioni di quella particolare realtà in cui essi operano, ma non sono peculiari del personaggio, quanto del luogo, ottenendo il risultato difficilissimo di mantenere unità separate di spazio in un unico complesso plot dislocato in una dozzina di location iper-reali, da seguire come un unico flusso che si comincia a rivelare come tale nel momento in cui i diversi personaggi si incrociano, intrecciandosi. Fotografia depurata di ogni bisogno realistico e al servizio dell’immaginario, ma che magicamente coopera a creare i toni dell’inchiesta e della ricostruzione di un episodio di guerra per il controllo del mercato della droga (“Una guerra che dobbiamo portare all’interno di ogni famiglia”): più efficace di un documentario, di cui a tratti la fotografia sgranata ricalca le difficoltà di ripresa senza inchinarsi né alla fiction, né al reportage: infatti le espressioni forzate e sopra le righe di Salazar (un Tomas Milian da invogliare a organizzare un’antologia delle sue interpretazioni) o altre soluzioni adottate per accentuare l’aspetto spettacolare sono costruite e si vede, perché gli autori vogliono che si noti lo sforzo non solo di ricostruire l’inchiesta che da più parti converge, ma anche di fabbricare momenti che adottano ad ogni situazione tecniche di ripresa e montaggio diverse: le infinite dissolvenze incrociate delle situazioni intime sono una cifra non meno peculiare del film del sorvolo dello Zocalo sull’elicottero di cui vediamo l’atterraggio, osservandone la pancia che gradualmente riempie lo schermo; una serie in particolare inanella le dissolvenze alla panoramica di 360° mai conclusa perché attraverso la dissolvenza si riprende, per concludere finalmente sul volto di Caroline. Sembra di assistere ad un incubo in cui ricorrono alcuni volti, ma la circolarità non è così repentina da restituirci senso di vertigine, invece comincia a farsi largo come un senso di agorafobia e l’inquadratura fissa a svelare la ragazza come centro di quel vortice è quasi liberatorio.

Ma l’impianto stesso consente di inventare molte soluzioni memorabili per l’impeccabile eclettismo. Impeccabile perché adotta tecniche volta per volta adatte alla situazione, assolutamente disgiunte dal resto dei racconti, ma contemporaneamente si riesce a cogliere un’amalgama in quel repertorio di differenti fonti d’ispirazione, in mezzo a quei “colori locali”, tra quella pletora di vicende e evoluzioni di personaggi: tutti trasformati enormemente. Catherine Zeta Jones che da ciarliera animatrice di pomeriggi con le amiche diventa mandante di sicari; Michael Douglas da avvocato di Corte Suprema a padre immerso nei bassifondi a salvare la figlia, strafottente ragazzina prima, poi donna provata da confessioni e prostituzione per avere la droga (bellissima la soggettiva della scopata subìta dal putscher, che seguiamo dal punto di vista di lei infilata come per caso in una serie di concitate sequenze: meno struggente di Requiem for a dream, ma altrettanto efficace dal punto di vista fisico); persino i due poliziotti superstiti sono profondamente cambiati dai fatti, al di là della perdita dei pards: quando vengono a mancare gli interlocutori operano anche sotterfugi, sono mossi dal desiderio di vendetta, agiscono.


Ci sono quasi gli estremi per comparare la splendida dominante ocra delle sequenze messicane (da notare che immediatamente oltre la frontiera il colore muta anche all’interno di un movimento di macchina unico) alle più sofisticate forme grafiche, ma probabilmente la radice di quelle immagini è infitta in un vecchio videoclip che collocava una bella ragazza ancheggiante in un forte contrasto dei sobborghi di un pueblo (Jennifer Lopez da giovane?), ma ancora più sofisticata è la figura di Salazar, che sembra estrapolata da un fumetto di Hugo Pratt ad esempio, sensazione confermata dalle molteplici didascalie (20 miglia a sudest di Tijuana; Columbus, Ohio; La Jolla, California; Washingon D.C.; Georgetown; Cincinnati, Ohio; San Isydro; El Paso, Texas; DF), che sembrano ricalcare quelle dei comics. Quello che invece interpreta la quintessenza del cinema sono i molti stop and go nel ritmo, quella straordinaria capacità di cambiare registro abbracciando completamente un cliché per usarlo temporaneamente e, proprio usandolo per il breve tempo di una sequenza, restituirgli nuova linfa spremendolo al massimo in tutte le sue possibilità espressive: mescolati in questi tanti plot, alla fine centripeti, i generi a cui attinge risultano essere rivitalizzati dai molti innovativi tagli di inquadratura scelti per ciascuno di essi; benché il plot sia in ciascun caso ovvio e già molte volte frequentato – e non potrebbe essere diversamente trattando materia di droga, sia dal punto di vista della famiglia che deve affrontare una teenager tossicomane, sia dalla prospettiva dei cartelli che controllano il traffico, inclusi i colloqui in carcere e i successivi ricordi della moglie del trafficante, che attraverso quelli ricostruisce e prende la risoluzione – eppure emerge alla fine un ritratto a tutto tondo, che risulta originale e efficace per come i passaggi da una situazione all’altra, sempre diversi, sono cuciti, sia che avvengano con la classica sintassi del dolly che segue un protagonista finché incrocia l’altro, da quel momento oggetto del nostro interesse, sia che si adotti la dissolvenza per trascorrere meno traumaticamente che con uno stacco sul movimento che ne interrompe un altro o che si anticipi con una dissolvenza sonora prolungata in voice over su un lungo corridoio tutto completamente immerso nel blu dei passi del giudice Lewis (capo della Corte suprema dell’Ohio), che comincia ad affrontare il problema; ed è proprio lì il fulcro del film, poiché noi siamo chiamati a immergerci nel problema droga attraverso chi è incaricato dal governo a combattere il traffico e contemporaneamente a viverne le conseguenze: è il personaggio meno consapevole all’inizio e più determinato alla fine, ma sicuramente il più affascinante perché meglio tratteggiato è Javier, il poliziotto messicano superstite, una sorta di deus ex machina che fin dall’inizio ha la percezione di ciò che accade e di come sia opportuno adeguarsi agli eventi per giungere alla composizione del mega-recit attraverso una prassi dedita ad un attento montaggio delle più disparate situazioni di genere, che sembrano trasfigurate dal suo sguardo-pensiero costantemente valutativo e un passo avanti a tutti gli altri personaggi grazie al suo trasporto morale, vero cuore del film e della lotta alle mafie al di là della retorica del paparino Douglas.