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Dancer in the dark
Anno: 2000
Regista: Lars Von Trier;
Autore Recensione: Raffaele Elia
Provenienza: Germany; USA; Netherlands; UK; Denmark; France; Sweden; Finland; Iceland; Norway;
Data inserimento nel database: 15-12-2000


Dancer in the Dark

 

Dancer in the Dark


regia Lars Von Trier
interpreti
Björk, Catherin Deneuve

distribuzione
KeyFilm


 

 

Musical malinconico e angosciante, scandito dalla voce acuta e tagliente di Björk, che, diretta ai limiti delle sue possibilità emotive da Von Trier, dà vita a un personaggio di grande intensità attraverso un uso apparentemente istintivo delle espressioni del viso, di sorrisi accennati e introspettivi e di una mimica mai forzata o caricaturale. Ritorna, dopo le Onde del destino il grande tema del sacrificio per amore, in quel caso per la persona che si ama, qui per il proprio figlio. Un sacrificio che nessuno riesce a capire, neanche la migliore amica (una misurata Deneuve) e forse neanche il figlio stesso, perché troppo distante dalla morale generalmente accetta e praticata. Per tutti è più rassicurante considerare Selma (Björk ndr) una minorata, una pazza o, al massimo, una handicappata di cui avere pietà in modo da sottrarsi al pericoloso confronto con il significato più profondo dell'amore che, inteso in maniera estrema, secondo Von Trierconduce "naturalmente" verso il sacrificio totale di sé. Ancora una volta una donna che può contare solo sulla propria testarda idea della vita per affrontare il mondo che , nel corso del film, diventa a lei paragonato, sempre più piccolo, bigotto e composto da individui banali e cattivi in quanto limitati e omologati. Chi è diverso, e vuole rimanere tale, in questa società deve sapere di essere votato alla tragedia. Una eroina tragica, perseguitata dal senso di colpa per aver generato un figlio sapendo che diventerà cieco, tacciata di essere comunista, ingrata, di sfruttare il proprio handicap e di non essere degna dell'accoglienza che la famigliola "media" targata U.S.A. le ha riservato. Il mito yankee del "buon vicino di casa" che accudisce i nostri figli e annaffia il nostro giardino quando non ci siamo, viene allora smascherato e frantumato pezzo dopo pezzo con consapevole disprezzo e l'opinione del regista sulla America è tutta nelle parole del pubblico ministero che, riferendosi in tribunale alla protagonista, afferma che "ella disprezza tutti i valori nazionali e che dell'America salverebbe solamente Hollywood ". Non ci sembra casuale che l'handicap "scelto dal regista sia la cecità; essa, infatti, rimanda indietro la nostra memoria cinematografica a un'altra ragazza non vedente, la fioraia di Luci della città di Chaplin, ma qui il finale è volutamente diverso, alla poesia struggente e malinconica con lieto fine, viene sostituito il ritmo sospeso e incalzante della cruda tragedia. Il film, girato per specifica scelta espressiva in "digitale", dipanandosi trasmette un senso di crescente angoscia e più che la commozione lo spettatore sente crescere la rabbia e l'impotenza, materiale e psicologica, dinanzi a ciò che accade. La musica è l'unico modo per Selma di evadere da tutto lo squallore che la circonda concedendole di non razionalizzare troppo a fondo la propria vita; le immagini di Fred Astaire, di Gene Kelly o del ballerino ceco Novy stridono volutamente con la piatta realtà descritta e costituiscono l'occasione per lasciarsi sedurre alcuni istanti da un universo surreale e illusorio che avrebbe intrigato Fellini e Bunuel. La bellissima scena del balletto nella fabbrica è, poi, un omaggio esplicito a un'altra pellicola di Chaplin, Tempi moderni. Attraverso i movimenti apparentemente anarchici della telecamera mobile che, con impietoso cinismo, scandagliano le più impercettibili espressioni e i movimenti anche solo accennati della protagonista, il regista ancora una volta non si pone verso lo spettatore lusingando con immagini rassicuranti la sua vista, il suo gusto o il suo udito, ma si rivolge direttamente al suo sistema nervoso, alle sua "anima nera" provocando uno shock emotivo che lo scuote nel profondo liberando infinite possibili reazioni, eccetto l'indifferenza. Von Trier aggiunge un altro capitolo al suo personale percorso all'interno di quel "cinema della crudeltà" che da Dreyer a Lynch, passando per Bunuel e Polansky, consente di indagare, lontano da ogni stereotipo e manicheismo, l'origine e il delirio della diversità, della cattiveria e della follia che abitano l'anima e la mente dell'uomo.