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Brother
Anno: 2000
Regista: Takeshi Kitano;
Autore Recensione: adriano boano
Provenienza: Giappone;
Data inserimento nel database: 06-12-2000


Brother

 

BROTHER


di Takeshi Kitano

 

 

L’eclettismo di Takeshi che spazia dal demenziale di Getting Any al film sull’infanzia (non necessariamente per l’infanzia), dalla partecipazione a Merry Christmas Mr. Lawrence a quella ai giochini esposti al ludibrio occidentale dalla Gialappa’s di Mai dire banzai, è tornato al passato; e lo fa con un’adesione totale ai suoi vecchi canoni yakuza e quindi alcuni spettatori attenti e assidui possono essere dispiaciuti perché aveva già messo in scena le stesse invenzioni in Sonatine, aveva già fatto gli stessi scherzi sulla spiaggia in tutti i precedenti film fino a L’estate di Kikujiro (però far cagare sotto un boss mafioso collegando un cordino ad una pistola appare molto originale e esemplare, come è irresistibile dileggiare il giapponesino che pretende di giocare a basket con i negracci), aveva ripreso la stessa auto sulla medesima stradina con le identiche luci all'alba scavalcando le stesse cunette in teleobbiettivo in Hana-bi, dove aveva già ucciso un innocente sul bordo del fiume di Tokyo con gli stessi riflessi e le medesime gru, e poi la strabordante violenza e la solita tiritera sugli eccessi del suo cinema....
Va tutto benissimo...Vogliamo chiamarla "maniera"? D’accordo, ce ne fossero dei manieristi che traformano in inquadrature sghembe all'inizio delle sequenze di questo film le polaroid del bimbo con la stessa funzione nel film precdente, ed in entrambi i casi da quelle sviluppano cinema puro!!

Ad esempio: quella sequenza con il cadavere in auto che appare e scompare al ritmo dei bagliori degli spari (ben più coinvolgente, nella stroboscopia da massacro di San Valentino, di quanto non fosse nella apoteosi di Sonatine) è da antologia dell’evocazione che fa un uso sapiente del fuori campo già compreso nei suoi risultati dall’allucinante inquadratura sostenuta lungamente, oltre il tempo sopportabile; ed è una pretesa assolutamente imprescindibile da parte di chiunque abbia l'ambizione di definirsi poco sano di mente l’adorazione per l'"imperturbabile" ghigna asimmetrica del nostro eroe soprattutto quando incontra per la prima volta Danny, il nero: è ripreso in teleobbiettivo lungo tutto il percorso, ma nel suo incedere – unico, con le gambe da fantino, dinoccolato, buffo – è sempre messo perfettamente a fuoco, lui null'altro, tutto quello che c'è intorno trascorre dall'essere a fuoco – quando capita di incrociare il carismatico yakuza, mosso da sacro fuoco destinale come da tradizione secolare – allo svanire in sfocature perché dovunque vada, in Giappone come in Usa, il suo essere tutto d'un pezzo, unico samurai in un paesaggio di comprimari, crea un alone di mito al punto che il giovane boss si converte di fronte al suo carisma, testimoniato dal suicidio alla roulette cinese del "fratello" giunto dalla madrepatria (episodio mitico che non ricordo in altri suoi film, ma che frequenta immaginari univesali, che riportano in patria un famoso cacciatore emgrato in Vietnam).
E poi la battuta finale: a chi non piacerebbe uscire di scena dopo aver dato ad un barista un gruzzolo "per i danni", quelli a venire; lo trasforma genialmente in un western, ritorno dei Sette Samurai ai Magnifici sette e viceversa (in omaggio postumo a Toshiro Mifune, ben diverso da quello dei dogmatici scandinavi) . Ucciso fuori campo e crivellato su delle porte da saloon: evidente segno di massimo rispetto a lui al confronto con le morti da burattini di quelli che vengono infilati dalle sventagliata di piombo e continuano a ballare scompostamente il canto dei mitra.

Inoltre mai nessuno si era salvato dalla sua furia nichilista (il doppio sparo di Hana-bi ho sempre pensato che fosse l'ultimo stadio della disperazione, qui preannunciata dalla risata divertita: "Moriremo tutti"), invece qui si salva il nero in un lungo monologo che riprende per una volta un guidatore in primo piano, mostrando che sta guidando, restringendo il quadro soltanto alla sua espressione, isolando un settore dell’abitacolo che lo racchiude ulteriormente in un quadro, una sorta di Ghost dog meno serio, senza filosofia, ma altrettanto carico di percezione di atmosfere cadaveriche di fine epoca (addirittura l'ideogramma di Shi – morte – scritto tautologicamente con i cadaveri): solo quegli irriducibili contrastano ancora la globalizzazione e mantengono atteggiamenti eroici per le uniche guerre che vale la pena combattere, le proprie, perse in partenza. E globali. Ma mai accettando imposizioni da famiglie altrui: "Quando il capo – l'altro, quello rivale che ha ucciso il suo – dice che ciò che è nero è bianco…", e lui invece ricrea lo stesso habitat al di là dell’oceano, pur di non sottostare ai compromessi.

E l'inizio, allora: già collocato in America e che prosegue senza soluzione di continuità con un flash-back non preannunciato se non dall'unica dissolvenza del film e che serve per dimostrare che, a parte i rituali (che in Giappone non sono ridotti a semplice pro forma – e lo sottolinea con le ragazze che intrattengono il vecchio boss portando alla bocca i bicchieri sostenendone la base con l'altra mano, gesto tipicamente nipponico, i gesti nell'aria sopra il sushi, i tagli di dita come punizione, ma soprattutto in segno di rispetto alla comunità a cui si appartiene, i tatuaggi sulle schiene…), ormai ogni paesaggio non connota più nulla e tutto è ammantato da Sapporo bier (forse sponsor?) e sobborghi tutti uguali.

E il ripescaggio del gioco dei dadi, pretesto per il dono finale? Quasi un mcguffin… Un eccezionale cinema di dettagli, che riconnotano le stesse situazioni, rendendole ogni volta sorprendenti.