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Magnolia
Anno: 1999
Regista: Paul Thomas Anderson;
Autore Recensione: adriano boano
Provenienza: USA;
Data inserimento nel database: 06-04-2000


Magnolia


MAGNOLIA

Film corale enigmatico negli intenti: sono molteplici i temi toccati al punto che non è possibile individuare l’aspetto che gli autori hanno considerato centrale rispetto agli altri.
Si notano sicuramente echi per un frammentario discorso amoroso barthesiano, insinuato tra le pieghe di quella apparentemente casuale successione di eventi ("Sono cose che capitano" è la frase più abusata) con cui forse si vuol dimostrare la fatalità oppure accentuare le coincidenze negli intrecci dei percorsi umani.
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Ciò che emerge con più determinazione è la malattia ovvero la presenza costante della morte? Oppure la vita è tanto squallida da poter essere ben rappresentata dai quiz televisivi? Siano essi del 1968 come del 1999; fabbricano comunque persone disturbate... E di profilo. E nel passaggio tra il profilo e il primo piano si viene catapultati dentro le storie degli sconosciuti, che però capitano quotidianamente e proprio quando gli innumerevoli volti proposti di lato cominciano ad aprirsi in primi piani, la battuta pronunciata è: "Scoprire qual è il ruolo di ciascuno". E si percorrono tre ore di estenuanti dialoghi per arrivare ad un accenno di sorriso di Claudia (la giovane disturbata e cocainomane, molestata da ragazzina dalle attenzioni del padre, bravo presentatore di quiz), appena percettibile come quello del giapponese in copertina di L'impero dei Segni di Roland Barthes e che racchiude come un ideale cmpletamento della tenera apertura del fiore del titolo in una languida richiesta di aiuto: "Save me if you could".
Quando la struttura del film si fonda su costanti confronti tra due persone collocate ai lati opposti dello schermo, è fatale che spesso i personaggi di questa lunga ricerca di un qualche aiuto siano ripresi di profilo, e l'ovvia prassi della sfocatura, diaframmando acquista valore significativo, giocando sulla maggiore o minore trasparenza del singolo: non è casuale che il più sfaccettato sia anche il meno nitido (Donnie, il "fulminato"), mentre il proiettore di luce che illumina alla perfezione Frank, ne mostra l'aspetto più recalcitrante (sul palco e nell'intervista recita ruoli falsi e bugie); più il movimento irrevocabile della mdp, che si avvicina ai volti implacabile, si fa prossimo alle facce e maggiore risulta la indefinitezza e il mistero affiorante da quelle tristi espressioni, oppresse dal passato ("Noi possiamo chiudere con il passato, ma è il passato che non chiude con noi").

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Il deuteragonismo diventa sistema quando sono gli incroci di esistenze quelli che determinano il film: attraverso questi approfondiamo sempre più – lentamente – la conoscenza con i personaggi, ai quali la macchina da presa si avvicina gradualmente, dapprima con campi-controcampi, la cui caratteristica essenziale è la sfocatura del personaggio più distante da noi, mentre quello di spalle impalla metà del quadro; successivamente i primi piani si fanno vieppiù stretti fino a poter contare alla fine i pori sul volto dell’attore inscritto nello schermo, quando ciascuno di loro ci è stato rivelato nel profondo e le individualità si fanno più precise e affrancate dalla coppia oppositiva evidente nella intervista a Frank (da parte di una donna, e afro per di più, che lo incastra); solo allora s'infilano una serie di ribellioni al destino che portano ad azioni dirompenti: il rifiuto di rispondere e la minzione di Stanley lo portano a rivendicare rispetto, lo struggimento di Frank lo conduce a insultare il padre (Earl morente, che con il suo legittimo desiderio scatena il resto del domino), per poi sciogliersi in una pietas filiale commovente, Claudia riconosce la possibilità di un amore per negarselo, Linda sembra tentata dal suicidio, ma rinuncia e Donnie deruba i suoi datori di lavoro, salvo pentirsi. Ciascuno si pente del primo impulso.

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Altrettanto bizzarro della struttura per contrasti è l’uso della banda sonora che ribalta spesso il piano della musica, normalmente lasciata in sottofondo e qui considerata più significativa delle parole e quindi sovraesposta al dialogo che possiamo costruirci sulla scorta di altre situazioni cinematografiche simili. Un segno confermato dalla esplicita tesi contenuta nel titolo del paragrafo delle dispense di Frank: "How to fake being nice and caring". La falsificazione che traspare nelle parole e nei racconti non sfugge alla analisi attenta dei volti, vero specchio dell'anima, piena di rimpianti in ognuno dei protagonisti, e verso l'epilogo questo è il sentimento che maggiormente si fa largo: il rammarico che sfocia in un inopinato e sorprendente siparietto canoro a cui partecipano tutti con il riff: "It's not going to stop", che è anche a questo punto del film il timore degli spettatori, tuttavia risulta convincente che la chiosa dell'improvvisato musical sia affidata al genio-bambino, che indica la soluzione per nulla scontata o salvifica, anzi il messaggio è tragicamente privo di speranza, poiché non si va verso la fine, ma l'unica soluzione possibile (e paradossalmente dignitosa) è arrendersi: "So just give up".
Le linee interne alle inquadrature spaziano lungo l’intero schermo, percorso sempre longitudinalmente dallo sguardo per mettere in relazione gli elementi posti in azione tra loro: questo è un movimento più evidente quando ad interagire sono schermi televisivi. In fondo il programma tv accomuna le nove storie: attorno al quiz si combinano i destini dei personaggi ribaditi nel piano sequenza che segue i ragazzini nel dedalo di corridoi del network, riproponendo visivamente la struttura del racconto che lega gli intrecci, resi autonomi dall’unità musicale della sequenza isolata dal processo di evoluzione dei singoli plot, riassunti dai volti; infatti le situazioni sembrano uscire dai visi. E forse l’insistenza nello scrutare le facce è quasi un tentativo di offrirci l’occasione di cogliere nei volti il cenno della malattia acquattata in ciascuno: i sintomi della morte, le tracce di quello che avverrà. C’è spazio persino per un accenno di autoreferenzialità che dà indicazioni su come analizzare gli eventi inseriti: "Nei film mettono queste scene perché è quello che la gente vive davvero".

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L’incombenza della morte si accompagna con la sensazione del tempo, ma non banalmente come irrecuperabile passato, quanto incapacità di attribuirgli senso ("Un’altra cosa che se ne va: il senso del tempo. Le cose le so ma sono sparse nella mia mente") e che si tratti di situazioni al limite della accettabilità (la pioggia di batraci è la più evidente prova che gli autori giocano con i limiti di accettazione dello spettatore) è chiaro nelle provocatorie sequenze dei monologhi di Frank, che però hanno un impianto sorprendentemente stilnovista, "dama dello specchio" compresa tra le strategie insegnate. Comunque il plot è magistralmente mantenuto in un ambito plausibile, benché sia costantemente in quella twilight zone definita all’inizio con la serie di aneddoti estremi, che non c’entrerebbero nulla se non per creare quella cornice che si avvale della voce del narratore per aggiungere un ulteriore filtro nel costante pendolo tra finzione di realtà e esagerazione di immaginario, utile per offrire l’intera gamma di possibili coincidenze e sibillini messaggi (il rap del ragazzino).
Sono cose che succedono: "But it did happen".

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