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L'avvocato del diavolo - The devil's advocate Anno: 1997 Regista: Taylor Hackford; Autore Recensione: Giampiero Frasca Provenienza: USA; Data inserimento nel database: 11-02-1998
L'avvocato del diavolo (The Devil's
Advocate). Regia: Taylor Hackford. Soggetto: dal
romanzo di Andrew Neiderman. Sceneggiatura: Jonathan Lemkin,
Tony Gilroy. Fotografia: Andrzej Bartkowiak. Musica:
James Newton Howard. Montaggio: William Henry, Mark Warner.
Cast: Keanu Reeves (Kevin Lomax), Al Pacino (John Milton),
Charlize Theron (Mary Ann Lomax), Jeffrey Jones (Eddie Barzoon),
Judith Ivey (Mrs. Lomax), Connie Nielsen (Christabella), Craig T.
Nelson (Alexander Cullen), Tamara Tunie (Jackie Heath), Ruben
Santiago-Hudson (Leamon Heath), Neal Jones (Debra Monk), Pam Garrety
(Vyto Ruginis), Weaver Laura Harrington (Melissa Black), Pamela Gray
(Diana Barzoon), Heather Matarazzo (Barbara). Produzione: Kopelson
Entertainment / New Regency. Special FX: Out of the Blue Visual
Effects. Technicolor. Usa, 1997. Durata: 2h e 25'.
Il diavolo penetra nelle aule dei tribunali, manovra leggi, codici
penali e civili, operazioni bancarie e transizioni finanziarie nella
New York del XX secolo. La Legge permette di penetrare in qualsiasi
campo ed aspetto sociale: il diavolo più che agire lascia che
gli altri lo facciano nell'illusione della loro piena autonomia. Si
siede, aspetta ed osserva. Il diavolo in questo caso è il
supremo boss di un rinomatissimo studio legale che da lui prende il
nome, si chiama John Milton (Do you remember "The Paradise
Lost"?), in un sussulto estremo di fantasia che ricorda fin
troppo da vicino la decisione di Alan Parker di chiamare il suo
demonio Louis Cifer, ha le sembianze un po' striminzite di Al Pacino
ma ricorda l'istrionismo di Jack Nicholson ne Le streghe di
Eastwick. Non ha assolutamente niente dell'enigmatico fascino di
Luis Miguel Cintra ne I misteri del convento del maestro De
Oliveira, semmai possiede il sopracciglio caprino del Cassavetes di
Rosemary's Baby, ma canta canzoni di Frank Sinatra come
nemmeno Peter Cook ne Il mio amico il diavolo avrebbe osato
fare. Il demonio tenta, il giovane sprovveduto, novello Faust, cade:
in questo caso si tratta di Kevin Lomax, un Keanu Reeves laccatissimo
ed impettito, abile, intraprendente ed ambizioso avvocato della
Florida. Non si scende più negli inferi come Marlowe, Goethe
e, perché no?, l'Alighieri ci avevano insegnato: operando un
rovesciamento polare, nella New York attuale si salgono i piani di un
elegante palazzo al cui vertice risiede lo stesso Milton che,
dall'alto dei luoghi che lo vedono agire, controlla ed osserva tutto
il sistema che gli ruota intorno. Nella tentazione ci si cade per
cooptazione, come nelle moderne aziende: il richiamo di soldi, fama e
gloria risuona forte, l'ambizione s'insinua prepotente ed il giovane
avvocatuccio tutta grinta e savoir faire si lascia sedurre.
All'inizio, si sa, tutto bene: qualunque spesa è lecita, la
casa è magnifica, il mondo dei notabili sembra quasi uscito da
una commedia di Lubitsch, ma poi, pian piano, troppo piano per un
Keanu Reeves profondamente impegnato a far assolvere imputati
colpevoli oltre ogni ragionevole dubbio (Fritz Lang
docet?), gli indizi trapelano e mostrano la loro vera
natura. Il fuoco, che richiama nemmeno troppo cripticamente per
metonimia le fiamme dell'inferno, è la componente simbolica
che anticipa il personaggio e lo accompagna in molti tratti della
durata del film; molti suoi atteggiamenti, gigionisticamente
mefistofelici, ne svelano la natura (rivela al chicano in
metropolitana l'adulterio condito da dosi di droga che la moglie sta
consumando in sua assenza nella sua stessa abitazione; conosce molte
lingue, tra le quali spagnolo, cinese e russo, il che lascia
presupporre il luogo comune che vuole il demonio in grado di parlare
tutti gli idiomi). Ma l'americano, si sa, difficilmente trae prove e
convinzioni dai semplici indizi, ecco allora Pacino entrare in chiesa
e far bollire, con un dito intinto dentro di essa, l'acqua santa,
mentre, in modo un po' costruito meccanicamente, il controcampo ci
mostra la figura di Dio che lo osserva da un affresco presente nel
luogo sacro. Non basta ancora? Ed allora il buon Pacino rende il
tutto esplicito anche per il tardo Reeves (vero e proprio alter
ego - qualcuno, più avvertito, lo chiama narratario
- dello spettatore ai limiti della acefalicità): lui
può essere chiamato in molti modi ma preferisce il termine
"anticristo"; questo secolo è il suo secolo (i Testimoni di
Geova lo ripetono dal 1960) e, come diceva Peter Gabriel, il suo
interesse è per l'uomo, visto che si reputa <<l'ultimo
degli umanisti rimasti>>. Quello costruito da Taylor Hackford
è un crescendo che vorrebbe essere di tensione narrativa (e lo
è in modo positivo per buona parte del film) ed invece risulta
un manifesto climax di informatività: se non siete
sicuri di quello che vi è stato descritto fino adesso, non
abbiate paura, vi sarà instillato tramite l'evidenza dialogica
e didascalica che aiuta sempre chiunque. Ed anche il messaggio del
film risulta alla fine chiarissimo (sempre secondo i meccanismi
dell'evidenza a dispetto della classe realizzativa): nel XX secolo il
diavolo tenta gli arrampicatori sociali sul versante della pura
vanità (<<è il mio peccato preferito>>,
ripeterà Pacino più volte per scongiurare il pericolo
Amplifon), penetrando in loro con mezzi eleganti, sollecitando l'amor
proprio e l'ego in cerca di affermazione smodata. Tutto questo
però senza intervenire in modo forzato sulla vittima,
lasciando ad essa il libero arbitrio (che, applicato alla sfera
demoniaca, era già il tema, visto però in chiave
positiva e rassicurante, del film di Archie Mayo del '46
L'infernale avventura, dove il luciferino personaggio era
impersonato da Claude Rains), facendo in modo che il diavolo sia un
semplice cinico osservatore e non un burattinaio come opinione comune
(e quindi Keanu Reeves) crede. Libero arbitrio che il personaggio di
Reeves esercita perfettamente a livello narrativo, decidendo di
spararsi, con un ammirabile coup de théatre, con una
rivoltella requisita ad un suo cliente (secondo i dettami cecoviani
che contemplano l'uso della rivoltella al quinto atto una volta
comparsa nel corso del secondo): peccato che il film non termini
però in quell'istante. Hackford mischia le carte e torna
indietro in ciò che aveva narrato fino a quel momento,
l'azione torna nel bagno di un tribunale in cui Reeves si era
rifugiato per riflettere su una situazione eticamente complicata:
quello che lo spettatore ha visto durante il film era un possibile ed
estenuantemente lungo flashforward, un inserto soggettivo di
Reeves o la possibilità datagli dal demonio di ricadere in
quel baratro da cui tragicamente si era sottratto? Ed il finale, con
il giornalista che vuole a tutti i costi ricavare lo scoop dalla
vicenda del giovane avvocato? Il vanitoso, e quindi il perduto,
è lui che esulta in primo piano alla notizia ottenuta in
esclusiva, o Reeves che diventerà famoso ugualmente tramite i
giornali? Questa ambiguità che in Europa sarebbe un pregio, ad
Hollywood, vista la didascalicità dell'intera pellicola,
è un grande difetto. Il film finisce; la canzone che
accompagna i titoli di coda è una Paint it Black
sparata a tutto volume: forse l'unico vero diavolo del ventesimo
secolo è ancora Mick Jagger.
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