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Al di la' della vita - Bringing Out the Dead
Anno: 1999
Regista: Martin Scorsese;
Autore Recensione: adriano boano
Provenienza: USA;
Data inserimento nel database: 16-01-2000


Al di là della vita

BRINGING OUT THE DEAD

Regia: Martin Scorsese
Fotografia: Dante Ferretti
Montaggio: Thelma Schoonmaker
Scenografia: Paul Schrader da un romanzo di Joe Connelly
Produzione: Paramount, Touchstone per Buena Vista
Interpreti: Nicolas Cage, Patricia Arquette, John Goodman, Tom Sizemore, Ving Rhames
Provenienza: USA
Anno: 1999
Durata: 111'




S’inizia come hard boiled, aiutato dalla voice over e denunciando la derivazione letteraria del testo (Joe Connelly, Pronto soccorso, Milano, Marco Tropea Editore, 1998, £ 32.000), non solo per il tono della recitazione ("Non fatemi togliere gli occhiali da sole"), ma anche per la scelta nell’illuminazione del set e soprattutto nel ritmo; frenesia, che trova nel delirio lisergico dei circuiti stradali il suo apice introdotto dalle inquadrature in cui campeggiano sirene, lancinanti ancor prima del sonoro: un effetto dopler al contrario che nel caso specifico toglie naturalezza alla situazione, ovattandola in una dimensione onirica-surreale, unica costante del film, presente persino nei rari momenti di "pausa", dedicati alla storia di Patricia Arquette. La giovane smarrita, dolorante umanità da ogni sguardo senza diventare mai patetica o struggente, ribelle all’autorità paterna eppure colma di filiale pietas è il medium atto a inserire sospensioni in cui si riposa il protagonista insieme al pubblico. Pause di riflessione addirittura meno realistiche delle luci che scorrono nell’ambulanza, illuminando la follia, che alberga dentro il veicolo, in cui si concentra tutto il male, pronto a scatenare l’iperreale spettacolo pirotecnico ammirato dal pusher infilzato: situazione grottesca che prosegue idealmente le visioni oniriche surreali dell’oasi delle pillole, raddoppiate dalle riprese in grandangolo della strada (sempre lei) da cui vengono estratte persone da un salvifico Frank, ripreso in grandangolo dal basso a centuplicare l'effetto esagerato dei corpi che ri-sorgono al richiamo perentorio della volontà del paramedico. Qui si svela il mestiere dei maestri (da Paul Schrader a Dante Ferretti), che riescon a rendere sostenibile una sequenza per altri imbarazzante, da inserire tra le migliori espressioni di terrore per la condizione di morti viventi (Patricia Arquette si autodefinisce "notte delle ragazze pom-pom viventi")

I personaggi sono connotati a lungo prima di farli agire: infatti la detective story del prologo (affiorante di tanto in tanto) si trasforma, camuffandosi in docu-fiction, ammantandosi di esistenziale ricerca introspettiva e concludersi nel completamento filosofico. Perché non assimilare all’heideggerismo di Red Thin Line questa voce che diventa gradualmente nostra in un afflato umanitario non peloso, ma di compassione? Il dialogo con un’entità metafisica da parte del protagonista infitto nella sofferenza del mondo si fa sempre più stretto: sentirsi Dio e immaginare il morto alla finestra in attesa di finire e che si termini l’accanimento è una persecuzione ricorrente, quanto i rifugi più o meno mistici elaborati dai soci per sostenere il quotidiano approccio con il mondo. E non è solo quello di quel tipo di mestiere a scatenare domande metafisiche, riguarda tutti noi; ma forse Cage ha una maggior esposizione emotiva e "sente" la disperazione di Noel, idrofobo solo un po’ più di lui (infatti può aderire alla sua forma di sfogo con mazza da baseball), capisce la ragazza, prova una forma di complicità persino con il pusher, sollecito alla propria ricerca di conferme della propria esistenza attraverso la resurrezione altrui, che ribalterà nei confronti di Mr.Bruke, comprendendo la pulsione di morte, che sopraffà l’istinto di sopravvivenza, di nuovo attraverso inferenze deliranti, realizzate benissimo attraverso mute inquadrature di disperazione visionaria.

I set dell'azione sono presentati prima come luoghi quotidiani, persino l'alloggio al sedicesimo piano adibito a nicchia da sballo si prospetta dapprima come appartamento in cui Cage si introduce con i modi dell'investigatore (viene sospettato di essere uno sbirro), ma poi lo conosciamo come un luogo di artificioso relax: l'acquario, la penombra, la musica, l'assenza di strepiti, le luci soffuse e virate sul pastoso rossastro delle pareti. Quell'ambiente in particolare subirà la stessa trasformazione violenta dell'abitazione di Taxi Driver, film con il quale ci sono parentele soprattutto nell'atmosfera: messo a soqquadro (a partire dai pesci dell'acquario sul pavimento) lo rivisiteremo in una falsa soggettiva a partire dall'ascensore, momento geniale proprio per la riappropriazione di un ambiente conosciuto sotto altre forme, più rassicuranti e pacifiche. Proprio come la metropoli, mostrata nell'altra sua faccia: il lato selvaggio non del crimine, ma della sofferenza. Allo stesso modo ci accorgiamo gradualmente che si percorrono sempre gli stessi luoghi nella notte: il microcosmo ossessivo dell'ospedale, la strada delle puttane, le soffitte fatiscenti delle chicane clandestine embarasadas, i falò degli homeless, ...

La maestria si avverte ad ogni inquadratura: a volte è vero genio, quello dell’unicità dei luoghi di After Hours ampliato a tre notti (scandite classicamente da didascalie temporali) nelle quali si avverte palpabile l'accumularsi della stanchezza trasformata in catatonia, talvolta è mestiere (non tanto le inquadrature capovolte della strada, quanto certo manierismo di altissimo livello nell’inserimento del personaggio di Rose, la tossica non-salvata dal paramedico); sempre adesione al personaggio inseguito da presso, facendo sì che lo spettatore sia coinvolto, ma non come per i freddi esperimenti del dogme95 o dall'ottimo obiettivo 50 mm costantemente alla stessa distanza dalla spalla di Rosetta dei Dardenne (che ottiene l'effetto di presenza riducendo al minimo l'invadenza della macchina da presa), ma classicamente attraverso i primi piani del sollecito infermiere, sempre presente non tanto - e non solo - presso i capezzali, ma anche - e soprattutto - alle nostre spalle attraverso il suo flusso di coscienza, che ci preavvisa della nostra effimera caducità. L'approccio è opposto alla camera a spalla ma l'affascinante atmosfera riprodotta con dovizia di fantasiosi incubi mira a sottolineare la condizione di testimone. Soltanto passivo teste chiamato dalla morte a certificare il suo lavoro e quindi condizione simile agli angeli wendersiani, però capace di rispondere rifugiandosi nei mondi artificiali di luci e colori e accelerazioni, rimanendo comunque contaminato da quella New York umana, pre-Giuliani, di cui il portantino è memoria indissolubile: infatti quando Mary gli rivela di essere stata bucomane e paventa un incontro precedente tra loro in veste di paziente e infermiere, egli assicura che se ne ricorderebbe. Non è solo testimone, ma anche archivio vivente dei morti: la memoria dà legittimazione allo stato di testimone, sennò sarebbe sostituibile conuno qualunque dei suoi soci. Allo stesso modo è chiamato ad essere lo spettatore, sempre presente in situazione, che si deve identificare con il soggetto, che peraltro non ha connotazione singola, ma è 'Frank-soggetto collettivo'. Perciò calza il paragone con gli intenti delle forme di cinema che cercano di tirare dentro chi assiste, solo che Scorsese e soci sanno farlo usando il cinema, e lo sanno fare bene, tanto che qualsiasi balzana idea viene accettata, perché tocca corde o immaginari già cinematograficamente acquisiti.

Le classicissime riprese attraverso il parabrezza alternate ai campi/controcampi tra guidatore e passeggero sono incredibilmente veritiere nella loro artificiosità: rappresentano la tempesta di sentimenti di cui sono preda gli uomini chiamati ad assistere alla sofferenza. Quello è l'aspetto che meglio è documentato dalle ottime prove d'attore: le variegate gamme di reazione al male; allo stesso modo la raffica di dissolvenze che inquadrano da punti di vista diversi la ragazza sono un orpello tecnico che denuncia con evidenza la raffinata capacità sintattica del regista, eppure non danno fastidio: sono l'espediente giusto per documentare l'ossessione del paramedico, la giovane morta per una incolpevole negligenza diventa rimorso insanabile. Il cinismo di chi non sa in quale altro modo difendersi (Larry/John Goodman), il misticismo di coloro che non potendo sopportare tanto strazio chiama la divinità a sostenerne una parte (bellissimo il blues intonato da Marcus/Ving Rhames nell'occasione della "resurrezione" dalle pasticche lisergiche, ma inferiore alla potenza dei Clash, quando a commentare l'atteggiamento della città che non fa discriminazioni partono le note di I'm so bored with U.S.A. preannunciate dalla battuta che recita "non si può. É anarchia"; o all'incanto della melodia cullante degli UB40), la violenza di chi ha bisogno di affermare la propria esistenza contro la presenza della morte (l'invasato psicopatico Tom Walls/Tom Sizemore. Questi rapporti sono sempre camerateschi, uno sviluppo inevitabile e vissuto senza fastidio dallo spettatore, perché è l'unica forma sotto cui si può dare la solidarietà impotente, ancora più frustrata se si è riusciti una volta a salvare una vita: perché tutti gli altri casi impongono un ridimensionamento atroce della propria onnipotenza, provata in quel frangente ("Dio ti ha attraversato, perché negare che per un momento sei stato dio, ma solo per un momento"); si nota che lo sforzo di sceneggiatura è sostenuto dallo stesso staff di L'ultima tentazione di Cristo per l'attenzione coraggiosa e non liturgica agli aspetti più autenticamente religiosi legati alla morte: la statua della madonna riflessa nello specchio quasi subliminalmente in una sosta dell'ambulanza è l'unico esplicito segno di devozione religiosa in un film che trasuda invece il più genuino 'trasporto' mistico, per cui si fa dell'ironia sul suo look da prete e sull'identità tra 'Mary la tossica' e 'Suor Mary' per aggiungere valore all'autentico sentimento religioso scevro di legittimazioni personalistiche, che vengono caricate sui personaggi di contorno, tutti pregni di umanità, ma senza lo scavo interiore del protagonista, colto da dubbi e non dalle certezze che normalmente accompagnano i film colmi di tensioni teosofiche, non c'è moralismo, ma morale. Etica. É difficile accettare senza fastidio da qualsiasi altro gruppo di autori una frase come: "Il primo passo è amore, il secondo la pietà", perché in questo caso quel sentimento non è pietismo d'accatto, come quelle riprese di sogno liberato dai fastidi sono autentici paradigmi di sollievo.

Da ultimo coincidono le due storie: la sua e quella di Mr. Burke che lo implora con gli occhi. La vittima che lui ha salvato gli chiede di restituirgli la morte che lui gli ha sottratto, come lui chiede alla figlia del suo beneficiato (e poi vittima, o è il contrario?) di restituirgli la serenità sotto le spoglie di Rose la tossica morta dopo il suo intervento e che cadenza l'intera odissea con il suo sguardo tutt'altro che bonario e disposto al perdono, anzi è una presenza che come un macigno sovrasta la cattiva coscienza degli spettatori, che coincide con quella di Frank Pierce. E solo allora la fusione delle due donne gli darà l'assoluzione: "Nessuno ti ha chiesto di soffrire, è stata una tua idea", probabilmente non una consolazione, ma uno stimolo ad uscire dal gorgo in cui era infitto senza per questo dimenticare o essere insensibile.