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Eyes Wide Shut
Anno: 1999
Regista: Stanley Kubrick;
Autore Recensione: Luca Bandirali
Provenienza: USA;
Data inserimento nel database: 25-10-1999


EWS

(un)final cut — Infinito Kubrick

 

E’ senza dubbio alcuno un testamento, questo "Eyes wide shut", così denso di rimandi interni al corpus kubrickiano da risultare incomprensibile al di fuori di esso. Ma prima ancora di addentrarci nella ricognizione dei riferimenti, dei valori estetici, dei rapporti dell’opera con l’ampio orizzonte culturale del suo regista, premono due puntualizzazioni. La prima: "Eyes wide shut" è un capolavoro. La seconda: siamo di fronte ad un caso di non-finito, o comunque ad un prodotto che è bene leggere come tale. Non nel senso di certe sculture michelangiolesche, con le quali l’artista riteneva consapevolmente d’avere esaurito i rapporti, ma nel senso più prossimo di non terminato che attraversa la storia delle arti, dai quadri di Leonardo fino ai romanzi postumi di Fitzgerald ed Hemingway. E’ questa anche la posizione dello studioso Paolo Cherchi Usai, il quale sostiene con forza l’ipotesi che al momento della morte di Stanley Kubrick vi fosse, a disposizione dei produttori, una versione di lavoro del film, e non la versione definitiva sbandierata dalla Warner Bros. Appoggiamo in pieno questa posizione, e ci disponiamo ad argomentarla nell’ambito di un’indagine formale.

Paura e desiderio

Sappiamo che la trasposizione cinematografica della novella schnitzleriana "Doppio sogno" è un progetto antico per il regista di "Shining", che vi reperiva una dicotomia che sta alla base di qualunque filosofia dell’immagine: realtà/rappresentazione. Il racconto di un’ossessione che cresce silenziosamente in un rapporto di coppia fino a deflagrare e ad imporre un nuovo inizio; questo il tema di "Doppio sogno", che Schnitzler conduce ad incrinare certezze, a ribaltare verità e credenze acquisite. Il nucleo drammatico del testo è risolto da Kubrick secondo un modello di scrittura dal forte impatto realistico; il nucleo onirico del racconto è costantemente aggirato dal regista, e questo vale come una dichiarazione di intenti sulla filmabilità della letteratura. Il motivo portante di "Doppio sogno" è il dubbio su quanto avviene, sul peso da assegnare alle cose: esistono i fatti, o abbiamo solo le interpretazioni?

Nel finale, il gioco strisciante del dubbio si organizza: <La realtà di una notte> dice la moglie di Bill <e anzi neppure quella di un’intera vita umana, non significano, al tempo stesso, anche la loro più profonda verità>. E Bill: <E nessun sogno è veramente sogno>. Dobbiamo nutrire, insomma, il dubbio su quanto ci viene narrato, che non è tutta verità; allo stesso tempo, però, nessuna finzione si elabora a prescindere dal fatto, o da una sua memoria.

Nel dubitare, nel rimeditare insoddisfatto di "Eyes wide shut" questo pensatore delle diadi che è Kubrick ritrova la diade che lo accompagna dall’esordio: <So bene che è pericoloso…forse è proprio questo che mi attira> - queste parole di Bill Harford, il medico-marito-geloso, ci guidano inquadratura dopo inquadratura ad una serie di azioni perfettamente coerenti: la ricerca notturna dell’ebbrezza conduce Bill in luoghi che rifuggirebbe di giorno, quando possiede un ruolo sociale definito; di notte invece eccolo suonare ad un campanello, contrattare l’affitto di una maschera con un individuo losco, e nel contempo sperare in segreto di essere altrove, nel proprio ambiente abituale. Paura e desiderio, nient’altro che questo: come il primo, rinnegato film del giovane Kubrick ("Fear and desire", per l’appunto).

 

Un testamento

Si poteva avere testamento più conciliatorio, più aperto ad accogliere le soluzioni parziali delle scuole di pensiero che, dalla nascita del cinema in poi, si danno acerrima battaglia?

Pensiamo al problema della rappresentazione cinematografica, al rapporto frainteso tra macchina da presa e mondo reale, alle fazioni che hanno preso le parti del mondo (<Così com’è> amava dire Rossellini) e a quelle che hanno sostenuto la teoria della segmentazione delle immagini, allo scopo di sottolineare l’evidenza della finzione. Dopo aver contribuito in misura massiccia ad una ridefinizione moderna dello sguardo cinematografico (non dimentichiamo che con lui il movimento di macchina in continuità raggiunge la perfezione formale e funzionale) Stanley Kubrick decide di sezionare brani d’azione talmente ampi da somigliare alla vita che scorre davanti agli occhi.

I lunghi dialoghi Cruise-Kidman formano blocchi considerevoli, e qui la direzione degli attori raggiunge un eccellente controllo delle performance: Kubrick non è certo un fautore dell’improvvisazione controllata (come Cassavetes, e il Ferrara dei due film con Keitel), e crediamo che il buon esito della recitazione sia derivato da un lavoro costante e maniacale sul gesto, sull’inquadratura, sulla parola. E a questo punto sarebbe nostra mancanza il non riconoscere la gran dedizione e la professionalità di Tom Cruise, attore di elevatissimo livello al quale sovente il critico europeo rimprovera l’inespressività: questa disapprovazione non dev’essere giunta alle orecchie di Francis Coppola, Martin Scorsese, Oliver Stone, Brian De Palma, che con lui hanno girato cose di una certa importanza.

Ma non la presenza del divo, non la pagina di Schnitzler s’impongono, per quanto importanti: la cifra stilistica del film è la FLUIDITA’: dei passaggi tonali e narrativi, della punteggiatura fatta di dissolvenze, dei movimenti di macchina sinuosi e avvolgenti. E’ chiaro che Kubrick intende procedere per sovrapposizioni emotive, vuole coagulare senza soluzione di continuità le tensioni della coppia, vuole che a guidare l’azione di Bill Harford siano un desiderio ed una paura crescenti, inestinguibili. Il ritorno, ugualmente ossessivo, martellante, del tema per pianoforte <Musica Ricercata II : Mesto, Rigido e Cerimonale>, di Gyorgi Ligeti, è un altro dei lacci che tengono insieme queste incredibili peregrinazioni dell’anima.

All’estremo opposto del naturalismo delle sequenze "domestiche", troviamo poi la meraviglia assoluta della scena del ballo mascherato, creazione che ha del prodigioso per quanto efficacemente risveglia la forza del cinema puro; i volti celati da travestimenti, i corpi nudi e rigidi, si affidano alla messa in serie, giocata tra il totale di uno strano rito erotico (un cerchio, "Il dottor Stranamore"…) e i piani ravvicinati dei partecipanti, impenetrabili: come nel film americano di Ejzenstein, "Que viva Mexico", dov’era palese la ricerca dell’effetto drammatico ottenuto in assenza del volto dell’attore, per giustapposizione di maschere sacre, evocatrici di energie primigenie (il Giorno dei Morti).

Per dirlo a chiare lettere: Kubrick risolve l’opposizione dialettica fra montaggio-sovrano (Ejzenstein) e montaggio-proibito (Bazin, piano-sequenza, cinema verità), linee di sviluppo del cinema moderno, con la sintesi superiore di "Eyes wide shut", la FLUIDITA’.

 

Non-finito

A questo punto, dire delle relazioni di "Eyes wide shut" con l’opera di Stanley Kubrick è operazione agevole, con cui si cimenterà volentieri lo spettatore più accorto: in un elenco approssimativo non possono mancare la sala da ballo di "Shining", le inquadrature pittoriche di "Barry Lyndon", le maschere di "Arancia meccanica", i valzer di "2001", in un elenco che finisce per contenere mezzo secolo di cinema.

Vi sarebbe infine da rendere conto al lettore della terza, e forse più importante delle nostre tesi: quella che concerne il non-finito. Riprendendo alcune delle argomentazioni a supporto dell’indagine estetica, e soprattutto il concetto di FLUIDITA’, ci sarà facile mettere in risalto le incongruenze più importanti, ovvero gli elementi di discontinuità che s’inseriscono come parti solide nella materia pastosa che è "Eyes wide shut", e sembrano proprio non appartenerle.

Il salto tra il primo giorno del racconto (la serata danzante) e il secondo giorno è brusco, quasi incontrollato; stessa cosa dicasi per l’inserto della scena dei coniugi allo specchio. Sono segni che mal si raccordano al linguaggio in uso, fanno eccezione insomma, e non si capirebbe il perché se non ipotizzando un lavoro ancora da terminare.

Per altre motivazioni, d’ordine narrativo, si può leggere nel senso del non-finito pure la lunga sequenza in cui Ziegler-Pollack (con funzione di Narratore) chiama Bill presso di sé per metterlo in guardia sui pericoli che corre indagando sulla festa in maschera; la quantità di informazioni che qui si offre a Bill (in questo caso con funzione di Narratario) è eccessiva e non richiesta. Trattandosi poi, come nota Cherchi Usai, della più consistente licenza che Kubrick si prende rispetto alla pagina di Schnitzler, è evidente il carattere provvisorio di una scena "riassuntiva" con la funzione di rendere esplicito quanto precedentemente era solo alluso, o suggerito. Posti di fronte ad un’ipotesi ragionevole (che vuole "Eyes wide shut" come opera incompleta), e ad un’ipotesi proterva (della Warner Bros, che parla di film ultimato in ogni sua parte), siamo per la prima:

(un)final cut. Infinito Kubrick.

 

(Luca Bandirali 1999)