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Il sapore della ciliegia - Ta'm-e Ghilass
Anno: 1997
Regista: Abbas Kiarostami;
Autore Recensione: Vanessa Durando
Provenienza: Iran;
Data inserimento nel database: 27-01-1998


IL SAPORE DELLA CILIEGIA: KIAROSTAMI AUTORE AUTORITARIO

Il sapore della ciliegia come il gusto irrinunciabile della vita. La storia di un uomo che progetta il proprio suicidio: ha scavato una fossa sotto un albero spoglio in una distesa di sassi, sabbia e terra e ci si coricherà di notte dopo aver preso tutti i suoi sonniferi. Ma ciò che più gli preme è trovare una persona che, il mattino dopo, vada a chiamarlo: se non gli risponderà dovrà coprirlo con venti palate di terra. L'improvvisato becchino avrà un compenso in denaro.

Una vera e propria caccia all'uomo occuperà la maggior parte del film. La macchina da presa segue il personaggio a distanza ravvicinata: lui sopra ad un Range Rover si accosta a persone. Una soggettiva dall'interno dell'auto svela gallerie di volti. Il finestrino incornicia espressioni fuggevoli, risate, rifiuti (vediamo per un istante Ali Sabzian, il protagonista di Close Up). E' una ricerca spasmodica e disperata che osservo passo a passo. La regia di Kiarostami è "dittatoriale", "impositiva": io, spettatrice, non ho scelta, non ho spazio, non posso tenermi a distanza. I rumori continui della strada coprono pezzi di frasi e i personaggi devono ripetersi. Sabbia, parole e rumori. Ed ecco che, arrivati al fulcro narrativo (il momento in cui il personaggio trova chi è disposto a sotterrarlo) il regista taglia un'intera sequenza per poi riapplicare il modello stilistico precedente. L'uomo-becchino goffo e delicato, che a sua volta tentò il suicidio, ma fu salvato da un gelso, è sull'auto e parla, parla, parla. Da dove venga e come sia avvenuto l'incontro possiamo solo immaginarlo. Tra una barzelletta turca e un elogio alla natura il regista ci apre uno sipiraglio di speranza. Si fa sera, il protagonista torna a casa. L'intera sequenza è ripresa dall'esterno: la camera è fissa, posizionata fuori dalla finestra. Intravediamo il personaggio in una stanza, attraverso le tende, si muove concitatamente. Arriva poi sulla sua tomba, fuma, si sdraia nella fossa. Comincia un temporale. Primissimo piano di lui nella terra illuminato dai lampi. Controcampo: le nuvole nere e la luna. Stacco. Nero. Voci fuori-campo dei soldati che corrono. Immagine dello stesso luogo e dei soldati. E' un immagine video, è la troupe, è il regista, è l'attore protagonista. Il regista dice "Stop. Ora registriamo i suoni." Gli attori si disperdono, giocano con ramoscelli d'erba, ammiccano guardando in macchina. Fine.

Ed ecco svelata la finzione, o meglio ecco l'ostentazione del mezzo cinematografico e del regista stesso che, in quanto autore-demiurgo, può creare e distruggere. Una provocazione? Un gioco cinico? Una demistificazione? Kiarostami è autoritario nei confronti dello spettatore e dei suoi personaggi. Prima costruisce una messinscena unidimensionale, fruibile da una sola angolazione (chiaramente la sua!) e poi la scardina portando sul set se stesso in quanto autore di quella stessa messinscena. Se stesso, quindi, come regista e segno vivente del cinema non come "fabbrica dei sogni", ma come fabbrica degli incubi e delle fantasie. Lui sul set è il cinema come artificio, è l'intellettuale e l'artista che usa palesemente il mezzo cinematografico per esprimersi. Ma questo uso o abuso, quali confini ha? Penso alla figura contradditoria e provocatoria del regista e all'idea di cinema che Pier Paolo Pasolini ci offre nella "La ricotta". Penso a Makhmalbaf nel reale ruolo di regista in Salam cinema e al suo rapporto con gli attori-persone/personaggi. C'è meta-cinema e meta-cinema. Il cinema può anche uccidere e resciuscitare,ma anche essere ucciso, come nel film di Kiarostami. Il sapore della ciliegia infatti sembra il suicidio del cinema stesso, quasi un atto testamentario. Il regista dice in modo un po' eccentrico: il cinema è finzione, è un mezzo, uno strumento! E lancia una sfida allo spettatore: ti smaschero l'artificio che ho creato, ma il mio messaggio, che ho espresso attraverso la finzione, deve rimanere vero perché io sono l'autore. Svelando, quindi, mi rivelo. E' la morte del cinema e il trionfo del regista: un paradosso autocelebrativo. Ha forse ragione Nietzsche quando dei poeti scrive:"In verità, il loro stesso spirito è il pavone dei pavoni e un mare di vanità".