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Il Vento ci portera' via - Le vent nous emportera
Anno: 1999
Regista: Abbas Kiarostami;
Autore Recensione: Alberto Corsani
Provenienza: Iran;
Data inserimento nel database: 04-10-1999


Il Vento ci porterà via
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IL VENTO CI PORTERÀ VIA


Regia: Abbas Kiarostami
Interpreti: Behzad Dourani e gli abitanti del villaggio di Siah Dare
Provenienza: Iran - Francia
Anno: 1999
Durata:115'
Distribuzione: B.i.M.

La distanza, lo scarto tra il modo di stare al mondo e l’immagine che ci si fa di questo stare al mondo, che abbiamo proposto in un intervento precedente su Kiarostami, trova un’accentuazione un po’ diversa con "il vento ci porterà via". Tralascio le implicazioni più scontate, e comunque reali, che stanno nel confronto fra città e campagna, tradizioni arcaiche e modernità, sapere popolare e tecnologia; a partire da un film che come pochi si gioca sulla rappresentazione dello spazio (uno spazio freddo e caldo insieme, immagini che sono liriche ma anche "glaciali" nella bellezza immobile del paesaggio, unica eccezione il campo che si muove al vento) direi invece che sono in questione qui due abitudini, due sensibilità, due tendenze diverse nel percepire il tempo.

In particolare ho l’impressione che l’ingegnere tenda a muoversi in una sfera legata essenzialmente a un tempo finalisticamente organizzato: aspetta infatti, per fini suoi, l’evento degli eventi, la morte della vegliarda, che è conclusione, limite estremo, punto di non ritorno per eccellenza; ed è anche determinazione oggettiva; si aspetta solo che qualcuno la sancisca (poi va diversamente...). Invece gli abitanti del villaggio vivono in una dimensione che combina molto meglio l’evento puntuale con una concezione del tempo come ricorrenza (vorrei evitare di dire tempo ciclico, che sa di ritorno a uno stato di natura incontaminata, di elogio del primitivo, che non mi piace punto). Il rapporto con la quotidianità, che per l’ingegnere è strumentale e privo di significato (la barba, la ricerca del latte, l’ascesa alla collina per captare il segnale del cellulare), per le donne del villaggio è invece esistenzialmente denso e pregnante. L’abilità di Kiarostami sta nel non proporre tesi ideologiche (siamo lontani dall’episodio, il più debole, dei "Sogni" di Kurosawa, quello del ruscello, e il dottore, che sembrerebbe depositario della scienza ma anche del buon senso popolare, dice solo banalità, come sono banali, ma autentiche le convinzioni delle donne incontrate), ma nel proporre come argomento centrale proprio la distanza tra due modi di vivere il tempo; due modi che difficilmente si parlano, e che, credo, non si incarnano solo in questi personaggi. A ben pensarci ognuno vive giornalmente questa dialettica, se riesce a metterla a frutto come dialettica vive bene, se no vive meno bene. Se viviamo di sola attesa, hai voglia, fai la fine di Cioni Mario che aspettava l’annuncio di Berlinguer: "Compagni... via!". Ogni istante ha invece importanza.

L’immagine ha il suo peso in tutto questo: ogni inquadratura del villaggio è inquadratura del tempo che passa, non tanto per come è fotografato, ma per la scelta degli oggetti e degli sfondi: muri diroccati, ceste e recipienti pieni o vuoti, ortaggi raccolti, acciottolato sporco o ricoperto di polvere, terra che si alza al passaggio dell’auto. E il suono, naturalmente: in questo davvero Kiarostami deve molto a Bresson. Il cambiare della pendenza della strada, cioè la natura del percorso, una volta che l’auto è uscita dall’inquadratura, la senti dal cambiare dei giri del motore: con l’immagine fissa, dunque, sparita l’auto, viviamo ancora il moto di quest’ultima.

Poi c’è un altro elemento: l’ingegnere ha bisogno del villaggio, di viverci, di conoscere le persone (e gli espedienti), degli eventi del villaggio. Sicuramente ne ha bisogno per interesse, per realizzare il suo straccio di filmato; ma possiamo credere anche alla sua sincerità quando si fa coinvolgere da alcuni di loro e sembra rimpiangere la loro vita: a modo suo stabilisce un rapporto con il bambino, con la giovane mamma, con lo scavatore del pozzo. Lui ha bisogno di loro. Non vale invece l’inverso. Che cosa di concreto porta lui al villaggio? Le indicazioni che dà al bambino si rivelano fallaci; il bambino è convinto di non dover dire bugie, compromette l’amicizia, partito l’ingegnere si presume che la sua vita continui né più né meno come prima di conoscerlo. Questo squilibrio non significa che "il villaggio" sia meglio, sia buono di per sé: semplicemente, magari inconsapevolmente "resiste" al contatto con il forestiero. Chi si muove, chi viaggia, chi attraversa non necessariamente cambia gli altri, magari cambia se stesso, ma in questo possiamo dubitarne. Com’è lontano Wenders. O forse son soltanto cambiati i riferimenti. Kiarostami parla, interroga, abbacina con inquadrature belle e ricercate, smorza con la raffinatezza formale (l’albero solitario è anche ai margini dell’inquadratura) il coinvolgimento emotivo e l’eventuale adesione all’ambiente; secondo me ce n’è abbastanza per dire che è sempre lui, cioè un grande.