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Il Vento ci portera' via - Le vent nous emportera
Anno: 1999
Regista: Abbas Kiarostami;
Autore Recensione: adriano boano
Provenienza: Iran;
Data inserimento nel database: 26-09-1999


Non possiamo far altro che narrare episodi di vita quotidiana, ci difetterā la sollecitudine ospitale degli abitanti di Valle Scura impegnati nelle occupazioni di ogni giorno: la nostra scrittura non č distratta dal mondo che ci circonda, come la vostra

Non possiamo far altro che narrare episodi di vita quotidiana, ci difetterà la sollecitudine ospitale degli abitanti di Valle Scura, che interloquiscono senza interrompere le occupazioni di ogni giorno, proprio quelle che sono per il cinema l'oggetto del desiderio impossibile: la nostra scrittura non è distratta dal mondo che ci circonda, come la vostra lettura coincide con l'atteggiamento degli spettatori delle immagini che scorrono sullo schermo, dediti soltanto ad essere accompagnati dal racconto e non protesi ad affrontare esami o impegnati in: bucato, gravidanze, scavo di buche, che completano la proposta di Il sapore della Ciliegia (qui diventata fragola nei sapori apprezzati dai "suoi ragazzi", sempre rigorosamente off screen, tranne quando li si indovina sfumati in un lunotto posteriore dell'immancabile macchina attraverso i cui finestrini filtra il mondo). Invece l'originalità del film sta nel fatto che la vita non può trasferirvisi, si coglie soltanto una superficie fatta di attività che incombono fuori campo, dalle quali il regista televisivo è escluso; sarebbe auspicabile una fruizione simile all'attenzione dedicatagli dagli abitanti di Siah Dare, attenti più alla vita, che alla morte da cui sembra attorniarsi il regista. Al contrario, noi con lui non troviamo il bandolo e rimaniamo nella fossa allestita in Il Sapore della ciliegia, da cui solo la telecamera usciva (rivelando comunque almeno un punto di vista di speranza) e dobbiamo accontentarci delle parole di un unico referente: un bambino che ci aspetta alle soglie del film e del paese, una guida attraverso la quale inferire gli eventi minimali mai rappresentati. Impenetrabili.

Infatti la maggioranza delle inquadrature sono occupate da pareti esterne di case bianchissime, come uno schermo su cui nulla si proietta, squarciato da piccolissimi antri, varchi verso la vita che si può soltanto immaginare dietro quelle soglie invalicabili sebbene siano aperte e accoglienti, al di là di quelle finestre da cui si riflettono ombre, che rimangono platoniche, inconsistenti; eppure sarebbe facile accedere a quelle povere case, tutti sono ospitali, nessuno è diffidente o nega una tazza di te ("Io ti riscaldo il te e ti do sollievo dalle tue fatiche, ma chi mi solleva dalle mie?"), addirittura il latte è gratis per l'ospite. Ma il regista, distratto dalla SUA idea di quello che prioritariamente va colto nella vita, non è in grado di ricevere questi doni (non beve il te quasi mai, non riesce a completare i contatti fisici con gli interlocutori, non lo vediamo assumere nulla e, colto da un ingiustificabile accesso di nervosismo, caccia il bambino latore del pane quotidiano), rifiuta gli inviti che gli spalancherebbero realtà sconosciute: il protagonista, come quelli che non riescono ad apprezzare il film, è spostato in un altro universo, più vicino alla comunicazione fatta di telefonini che solo in mezzo ai morti di un cimitero consentono di cogliere la voce dei vivi ("Noi ci parliamo tanto bene così. Che ce ne facciamo del telefono?"), mentre come se fosse protetto da una cupola il paesino non è trapassato dalle onde elettromagnetiche. Ovvio che in un Paese di malati invasati dalla sindrome del cellulare questo film non possa essere apprezzato: pone di fronte all'impossibilità di comunicare realmente, naturalmente (i ponti laggiù sono semplici alberi piegati), e forse anche questa nostra forma telematica di comunicazione patisce le stesse carenze.

Si accede alla sostanza più vitale soltanto attraverso la poesia: la fragranza del latte esiste soltanto nell'antro privo di orpelli artificiali, persino la luce manca perché falserebbe il contatto con l'emblema della vita e soprattutto perché mostrerebbe la giovane, consentirebbe di acquisire un dato che potrebbe rivelare "i gusti" dell'uomo che sta scavando la buca e quindi CONOSCERLO più a fondo del consentito dall'occhio del cinema, negato all'inizio dalla Signora del Te, che gli impedisce di usare la macchina fotografica, aggeggio custodito, ma inutile in quella realtà trasparente al fissaggio su qualsiasi materiale di memoria collettiva. Unico appiglio universale è la poesia, perché legata alla natura e alla spontaneità espressiva, colpisce direttamente e foneticamente l'animo: infatti si confonde con le normali occupazioni a cui si è dediti abitualmente, e a questo proposito nel solco della tradizione che vede spesso nel cinema arabo la presenza del racconto verbale si cita la storia di Fahrad, che scavò una buca con l'aiuto dell'amore, di nuovo prevedendo l'indispensabile presenza della partecipazione sentimentale. Attraverso la poesia otterrà il latte, perché la poesia è vita come il latte e racchiude anche la fatalità della morte, che ne fa parte al punto che il titolo del film coincide con l'ultima strofa della poesia recitata nell'antro oscuro e caldo della stalla: una sensazione ancestrale palpabile in quei fotogrammi di tenebre assolute, ribadite verbalmente dalla poesia e sottolineata dal regista con la domanda: "sai cos'è l'oscurità?". Poi si riemerge e la luce offende gli occhi, cancellando quel contatto con il mondo naturale del latte.

Alcuni che non hanno apprezzato il lavoro di Kiarostami oppongono il rilievo che non si tratta di un film. É assolutamente vero; si tratta di un non-documentario che prende spunto dall'esplorazione di un'impervia zona del Kurdistan iraniano: una cultura aliena anche al regista vero e proprio, che necessita di un pretesto inesistente (la vecchia non muore e dunque la ripresa della cerimonia funebre non si dà: quindi alla fine si nega il presupposto) per consentire il passaggio su nastro di spezzoni di vita e ha bisogno dello schermo del protagonista (perpetuando il solito gioco di riflessi già adottato in Dov'è la casa del mio amico? In Sotto gli ulivi e in altri momenti apparentemente autoreferenziali del suo cinema) per dichiarare l'incapacità di descriverla con i mezzi di riproduzione delle immagini a nostra disposizione, probabilmente perché quella stessa cultura non appartiene al nostro mondo di telefoni e apparati per catturare il mondo, non ne ha mai sentito il bisogno e quindi sfugge ai suoi criteri: non può venire afferrata da quegli strumenti. É a priori: infatti l'oralità ribadisce il fondamento dato da ciò che è sempre stato: la tradizione, non quella soffocante delle regole, ma quella in sintonia con la natura. Il bambino dice che il paese deve continuare a chiamarsi Valle Scura perché gli antenati lo avevano chiamato così, nonostante sia caratterizzato dal baluginio del nitore dovuto al bianco delle case è giusto che mantenga il suo nome, quindi non c'è un nesso linguistico tra referente e riferito, tra indice e oggetto: il codice non può nulla quando il significante non ha legami con la realtà, serve un nuovo sistema di comunicazione. Soltanto LA POESIA APRE BRECCE in virtù del fatto che si occupa della vita e non della morte, come il cinico reportage che gli intrusi si accingono a realizzare. É l'unico modo di accorgersi del mondo, che non può avvenire chiusi nella jeep che comprime l'immagine e pone un diaframma con il mondo, come avviene durante i colloqui con il ragazzino attraverso un finestrino parzialmente rialzato, dove la gestualità è impedita al punto che non si stringeranno la mano per l'intervento di un'altra diavoleria: il solito telefonino.

Però il film non si dimentica della assurdità della situazione ed inserisce un elemento di schizofrenia, per cui l'ingegnere percorre settecento chilometri e rimane in attesa per settimane di un evento cui rifiuta di presenziare a casa sua, respingendo l'istanza della madre che lo avverte di un lutto in famiglia. Probabilmente è la predisposizione all'esotico ed il bisogno di crearsi l'attesa di un evento a venire stigmatizzata nel film: un atteggiamento che impedisce di crearsi un ritratto di una realtà sconosciuta, ma anche acceca rispetto alla propria vita familiare quando l'attrazione è tutta orientata verso la pulsione mortifera sprigionata anche da finti mezzi di comunicazione.

Persino le azioni poco più che quotidiane non ellittiche vengono riprese in plongée, conferendo irrealismo all'inquadratura, come se il cinema si ergesse sempre a giudice di ciò che riprende, ma al contempo ne fosse escluso, osservandolo a distanza, così si aggiunge spessore all'immagine finale di Sotto gli ulivi, che riprende la corsa in lontananza o la Renault di E la vita continua che arranca sulla collina di fronte, lasciando solo l'obbiettivo. Ma allo stesso modo l'arrivo della troupe è ripresa dalla prima inquadratura fissa dall'alto: dunque anche l'entità data dal paesino non li riconosce, ne è incuriosita, ma fino a quel momento non ha i mezzi per esperirli. Queste riprese dall'alto rendono tangibile il distacco e l'impreparazione dell'ingegnere ad afferrare i valori di quella comunità e viceversa. Al momento dell'ingresso nel paese il bambino lo accompagna sui tetti raggiunti dopo una prima arrampicata sulla rocca a cui sono abbarbicate le case e le scarne ma essenziali informazioni rilasciate sono intercalate da ricorrenti: "Da dove si sale?". La predisposizione a spiare dall'alto ci proietta subito sulle terrazze più elevate e fatalmente le inquadrature dei primi approcci patiscono questo vizio voyeuristico che non porta a nessuna rivelazione, proprio perché non è un film di eventi e non vuole essere un documentario, però al termine comprendiamo anche noi che il taglio giusto sarebbe stato inoltrarsi nelle case e non sbirciare dall'alto; l'ingegnere fugge e per stizza scatterà foto a casaccio di una processione di donne dal finestrino dell'auto (il documentario appunto), colte all'alba di una luce bellissima che si solleva gradualmente dalle brume e quasi in piano sequenza propone i primi chiarori rivelando il paese nella sua luce corretta, ma ormai tutti siamo coscienti che quell'atteggiamento non permetterà di rubare le immagini della vita, che trionfa sulla morte, la quale si può manifestare solo naturalmente e quindi neanch'essa è documentabile. Perciò pure il reperto ferale viene gettato, come inutile simulacro insignificante.

Il viaggio sul motorino ha lo stesso valore dell'ultimo passaggio dato dall'aspirante suicida di Il Sapore della ciliegia: transitare in mezzo a quelle rigogliose messi con qualcuno che ne ribadisce il valore qui e ora è un messaggio apparentemente banale, ma potentissimo sia per una società proiettata verso la frenesia di una soddisfazione sempre collocata altrove, sia per una comunità mistica, imbambolata dai premi dell'aldilà, di cui non si ha sentore in questo mondo, dove il bambino ad un'unica domanda non sa rispondere: "Cosa spetta ai buoni e cosa ai cattivi?", un premio ultraterreno non ha alcun senso in mezzo a quella armonia naturale non sconciata dall'intervento di Dio o dell'uomo. Ed il regista che gli suggerisce, confondendosi (l'amaro sarcasmo di Kiarostami fa capolino in quella sola battuta), il paradiso per i cattivi e l'inferno per i buoni, si troverà poi a pietire un giudizio e un'assoluzione dal bambino stesso: "Sono un uomo cattivo?". Di lì comincia a capire il suo essere fuori posto. Eppure continua a non poter interagire con quel mondo, riesce a mala pena a vederlo, ma non ad osservarlo, non incide nemmeno girando una tartaruga (simbolo di longevità, come la vecchia) sul carapace, perché si rigira, né tantomeno ad aiutare lo scavatore rimasto vittima di una frana (di nuovo come in Il sapore della ciliegia ci troviamo di fronte a montagne di terra che sommergono l'uomo), al massimo può dare l'allarme, ma scatta qualcosa anche a livello di sonoro che si frappone con i rumori contingenti. Un disturbo forse dato dalla concitazione, comunque proveniente dall'esterno di quel mondo ad isolarlo ulteriormente. Una volta estratto né noi, né la cinepresa, né il regista vedremo in volto il lavoratore impegnato nello scavo; tutti i personaggi sono avvolti dall'anonimato, tranne il bambino-guida che si nega dopo la sfuriata, chiudendo l'unica possibilità di interazione, la custode del te, che proferisce parole taglienti, universali (i tre lavori della donna) e a suo modo ci offre una possibile chiave per capire la semplicità del paese, il maestro che obliquamente fa capire di essere stato messo a parte del segreto delle riprese alludendo a reperti archeologici di cento anni come la malata di cui si attende la morte (la malattia poi si rivela essere soltanto la vecchiaia, altro aspetto della vita precluso all'acquisizione cinematografica, perché è un concetto inesprimibile), egli parla poco, maieuticamente fa però rivelare al protagonista un vecchio episodio della sua infanzia, che rimarrà l'unico momento di godimento associabile alla figura del regista, infine il medico, riproponendo lo schema di molti film precedenti del corpus del regista iraniano, fatti di incontri edificanti e simbolici percorsi di crescita del protagonista che attraverso espedienti tecnici finisce con il diventare un nostro emissario: false soggettive, ma che ci danno il punto di vista sempre dalla parte del protagonista, riprese fisse insistite, che nascondono la chiave per accedere a quel mondo alieno, sono significative proprio per la loro indifferenza per la sintassi cinematografica e invitano a perlustrare tutti gli angoli dell'inquadratura, cogliendo attraverso l'affezione dello sguardo disabituato l'ingresso per capire quel mondo, ma quello è poi un altro film individuale, che non scorre sullo schermo, al massimo ognuno lo proietta su quelle pareti immacolate, accettando gli infiniti racconti che Kiarostami non può che limitarsi ad annunciare: ad esempio la casa da cui compare una donna che stende il bucato, custodisce una seconda apertura sul mondo dell'inquadratura cinematografica; a questa seconda finestra si affaccia una donna, di cui non sapremo nulla. Proprio quello è l'affiorare della realtà che interesserebbe al regista, ma si rende conto che si tratta di un racconto precluso e relegato alla sola immaginazione di chi vi assiste. Per questo motivo ci sono infiniti richiami al fuori scena e la maggioranza delle parole sono pronunciate da attori inesistenti, né in quel momento presenti nell'inquadratura che accoglie la loro voce, né mai durante il film: la loro assenza e trasparenza è salvaguardata al punto che si scelgono posizioni di macchina che li espellono, negando le leggi del campo/controcampo. Da quando il bambino rifiuta ogni contatto ulteriore la sua figura è evanescente, impossibile da ricostruire integralmente.

Le ripetizioni che stanno costituendo questo intervento riprendono quelle del film: l'ossessione per gli esami, le rincorse dell'onda sui tetti e lungo la strada che conduce al cimitero, le occupazioni iterate servono per ribadire l'incomunicabilità tra i due mondi, la sottile bellezza della vita come si presenta nella sua costante riproposta di se stessa e offrono contemporaneamente costanti possibilità a chi ha pazienza di predisporsi all'accoglienza di un mondo diverso dall'artificiosità del nostro.

C'è un ritmo che il film s'impone perché è l'unico modo per riabituarsi alla bellezza della vita: il finale del medico che nega l'importanza di un altro mondo, quando si ha a disposizione questo, a cui si accede non soltanto riconoscendo qual è "l'albero solitario", ma anche qual è l'inquadratura giusta per accoglierlo nella nostra percezione e predisporci alla visione: "Vivi ciò che hai e abbandona le promesse".