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Il sapore della ciliegia - Ta'm-e Ghilass
Anno: 1997
Regista: Abbas Kiarostami;
Autore Recensione: Adriano Boano
Provenienza: Iran;
Data inserimento nel database: 27-01-1998


Badii scende dall'auto tre volte in tutto il film: nella tradizione di Kiarostami il pubblico si trova assiso nel sedile di fianco all'autista e il suo sguardo indugia un po' sulla strada e più spesso sul volto del conducente, che è anche protagonista, sottolineando la sua preminenza nel pilotare l'attenzione degli spettatori. In quel paesaggio irreale, confine ctonico del mondo con un aldilà anelato dall'aspirante suicida, possono avvenire incontri emblematici e discorsi metafisici accompagnano il cammino verso la morte. La parentela con certo Pasolini (Uccellacci e uccellini) si stempera nella tentazione irresistibile a svelare metalinguisticamente l'inganno, che però non sconfigge l'incombenza della morte: infatti non veniamo a conoscenza dell'effettivo epilogo dell'apologo, perché la "finzione" si interrompe prima. Il turco, in quella dimensione, andrà sicuramente a controllare la fossa di Badii e lui avrà risolto in un senso o nell'altro il suo dilemma esistenziale, che non prevede un confronto religioso (l'incontro con il seminarista lo testimonia), ma noi, scesi dal sedile a fianco di Badii, siamo estromessi da quell'universo di riferimento per venire ricacciati ad assistere al mondo attraverso la telecamera che ci mostra le ultime riprese di quello che era un film in cui noi eravamo spettatori.

Ma questi sono i soliti raffinati giochi di Kiarostami. Ciò che arricchisce il cliché è la maggior tensione intellettuale che s'intravede nell'ombra del protagonista, sommersa dalla terra che viene scaricata sul luogo dove si proietta la sua immagine senza poterla ovviamente cancellare, quasi a dileggiare l'uomo per la sua decisione di chiedere che vengano gettate venti palate di terra sul suo cadavere il mattino dopo; oppure nelle disquisizioni al limite del sofisma ermeneutico sul fatto che la parola "suicidio" esiste e dunque va applicata, sempre in pieno rispetto di un approccio molto dignitoso e serio alla morte, tanto che gli interpellati sono tutti stranieri e appartenenti a etnie segnate dalla guerra, quindi con una sensibilità particolare alla morte. Pertanto essi sono in grado di conferire un plus-valore all'atto di levarsi la vita: la loro testimonianza e partecipazione permette di superare l'azione solitaria e disperata. Infatti la terra scorre sulla sua ombra senza cancellarla, perché non ci sono testimoni, che compiono il gesto con la dovuta pietas.

Il personaggio più adatto al compito non può che essere un uomo che ha già tentato il suicidio; la sua funzione è quella di ribaltare la visione del mondo attraverso un dettaglio (il frutto del gelso della sua parabola), che assegna la giusta dimensione ad ogni cosa, fino a comprendere la morte stessa  in questo rationem reddere (restituire una spiegazione ad ogni fenomeno attraverso la natura): "L'unica soluzione è la morte, ma non all'inizio". Intanto sulle tortuose divagazioni dei due uomini scorre una via sinuosa, ingarbugliata, labirintica e polverosa conosciuta dal turco, mentore del suicida, che lo conduce giù dal monte. Solo un colore ha diritto di cittadinanza nel film: tutte le sfumature del giallo, aggiungendo un senso di terrigno alla presenza costante della terra.