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Limbo
Anno: 1999
Regista: John Sayles;
Autore Recensione: adriano boano
Provenienza: USA;
Data inserimento nel database: 01-09-1999


Limbo




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LIMBO


Soggetto, sceneggiatura, regia: John Sayles
Fotografia: Haskell Wexler
Montaggio: John Sayles
Produttore artistico: Gemma Jackson
Costumi: Shay Cunliffe
Musica: Judy Karp
Produttrice: Maggie Renzi
Produzione: Screen Gems Films
Formato: 35 mm.
Provenienza: USA
Anno: 1999
Durata: 126'
David Straithairn ... Joe Gastineau
Mary Elizabeth Mastrantonio ... Donna de Angelo
Vanessa Martinez...Noelle de Angelo
Kris Kristofferson...Smilin' Jack
Casey Siemaszko...Bobby Gastineau
Kathryn Grody... Frankie
Leo Burmester... Harmon King
Rita Taggart... Joe
Michael Laskin...Albright
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Come sempre Sayles offre un prodotto originale, che sconta solo marginalmente un generoso tentativo di mettere in scena un esubero di materia, inevitabile per l'evidente intento di consegnare un'immagine a tutto tondo del passaggio tra la vecchia Alaska scomparsa e quella in costruzione attraverso molti modi di raccontarsi dello stesso Territorio, senza privilegiare il racconto sociale alla Jack London o il diarismo o addirittura la soap opera e il dramma populista, bensì analizzandoli tutti, estraendo da ognuno l'essenza e di ciascuno introducendo elementi amalgamabili; sensazionale in questo senso l'intreccio di storie incrociate nel pub che rimarcano solitudini, ma ancora di più offrono interpretazioni individuali del fascino perduto di quella terra, un atteggiamento di totale adesione al grande respiro narrativo di quelle lande di solitudine accomunate agli antipodi del continente americano, descritti dallo scrittore cileno Francisco Coloane negli stessi termini eroici e nostalgici, dall'afflato di libertà nel perseguimento del proprio destino, dalla cancellazione sistematica del mondo affascinante di avventura e natura, dalle difficoltà della vita in un ambiente selvaggio. Le molte voci e i visi rivolti parzialmente in macchina, ma guardando un punto dell'infinito rappresentante l'universo fantastico che per loro significa Alaska, esprimono una grande nostalgia e riescono a creare quel mondo perduto, finché appare Joe, incarnazione materiale e riassunto di tutte quelle saghe epiche, autentiche solo per il fatto di essere raccontate (e allora si accumulano le figure solo tratteggiate con poche immagini descritte verbalmente, come il padre di Joe, il suo bagaglio di storie incredibili, eppure parte della propria storia e la sua fine); un'affabulazione fatta di mille voci, che già all'esordio del film trovava il primo segnale nel trascorrere senza soluzione di continuità dalla stentorea voce del documentario apologetico a quella sarcastica del lavoratore in fase di dismissione, impegnate nella descrizione delle "bellezze" del Territorio: si tratta di una sinfonia di infiniti frammenti narrativi inserita in un impianto orientato a non tralasciare alcun aspetto nel tentativo di non soffocare nessun approccio fino al geniale finale. Apertissimo, quasi una delle pagine bianche del diario fatta schermo, perché ognuno vi incida il suo epilogo.

Il metodo adottato elabora il vecchio processo dei colleghi indipendenti degli anni '70 (Variety di Bette Gordon, 1983, è l'esempio per eccellenza), che affidavano al racconto verbale un'infinita serie di storie, qui Sayles riesce nell'intento di incastonarle l'una nell'altra attraverso una ripresa quasi in piano sequenza che va a ritagliare in maniera casuale le rievocazioni degli avventori e del barista, che non a caso sarà anche la nostra fonte (e di Donna) di informazioni sull'antefatto della vita di Joe: l'eroe, come il racconto, è un coacervo di molti stereotipi positivi della frontiera (eccellente cestista, pescatore stimato, adattatosi a mille lavori in seguito al destino avverso); e anche il personaggio di Mary Elizabeth Mastrantonio è il risultato di un omaggio a tutti i caratteri che si possono incontrare nella letteratura e nelle sceneggiature sull'estremo nord americano: sensibile, ondivaga, sradicata, indisponibile al compromesso (efficace preparazione agli impercettibili cambiamenti di tono che caratterizzano il dipanarsi della vicenda risulta l'addio in pubblico al gruppo musicale e al suo ennesimo partner). Entrambi fanno professione della loro indisponibilità a svolgere lavori ripetitivi, squallidi, soffocanti, di totale dipendenza da altri: questo è un tratto evidenziato nella gran profusione di temi che invece sono solo accennati e il loro approfondimento è lasciato alla sensibilità dello spettatore, con ogni probabilità volutamente, ma non questo tratto essenziale allo spirito libertario del regista, che tiene a rimarcare un rifiuto dell'alienazione (nell'accezione più marxista del termine). Purtroppo questo ci regala una pletora di brani country di cui non si sentiva francamente il bisogno; in particolare si soffre un'intera sequenza che calligraficamente descrive la prima battuta di pesca di Joe Gastineau sulla barca Raven corredata di fotografia flou, curata forse dal centro per l'incremento del turismo in Alaska, e il sottofondo della voce di Donna che sciorina integralmente una sdolcinata canzone struggente, occasione per uno dei momenti di retorica del film, quando la cantante spiega l'emozione di riuscire realmente a entrare in una canzone e comunicare questo stato al pubblico. Increscioso episodio che fa il paio con la spiegazione di Joe della passione per la pesca: "La gente si appassiona. È la cosa in sé. Tiri fuori i pesci dall'Oceano", ognuno una storia.

 

Anche le figure apparentemente pleonastiche e marginali come Bobby, il fratellastro di Joe, o la macchietta di Arnold, il pescatore costretto a lasciare la barca per un posto insicuro, sono indispensabili all'economia dell'epopea, perché nel riassunto di tutto quello che è stato il Territorio non potevano mancare i trafficanti senza scrupoli o i vinti affondati nella inane esacerbazione. Ma soprattutto alla tipologia di Sayles non poteva mancare il pescecane privo di scrupoli, che immagina addirittura l'Alaska come un enorme parco di divertimenti, evocando lo spettro di Disney: la vocazione turistica viene mostrata come il grimaldello del neoliberismo globalizzante, il mostro già descritto in Men with guns, grottesco per la collocazione che nel montaggio (curato personalmente dal regista sceneggiatore) gli riserva un controcanto dissacrante, ma con grazia, senza roboanti proclami retorici e i sapienti recuperi del personaggio lo rendono assillante commento e costante richiamo alla cruda realtà: infatti le sue intrusioni nel flusso del racconto sono sentenziose e riprese con taglio diverso dal resto delle riprese proprio per ritagliargli uno spazio esterno al mito, esiliarlo nel suo mondo di divertifici artificiali, fuori dalla favola destinata a soccombere sotto la spinta del profitto indiscriminato (il titolo iniziale era Death of a Dream). Anche l'adolescente inquieta è risultato dell'attenta decostruzione di quella narrazione, applicata universalmente al tema Alaska e sviluppata in un racconto originale e avvincente, risultante da tutte le suggestioni raccolte dalle narrazioni; frammentate, però in modo da nascondere attraverso crasi sofisticate l'impegno a segmentare sul piano stilistico quello che risulta essere un flusso (straripante) ininterrotto di mitopoiesi.

La centralità dell'aspetto narrativo è esplicitato in un doloroso screzio tra le due donne. Donna chiede complicità alla figlia con il nuovo fidanzato: "È importante che lui sappia che non sei un racconto"; e la giovane Noelle, nome che rinvia ad un altro mega-recit, di rimando: "Magari amerei esserlo". E davvero lo diventerà nella parentesi diaristica, assorbita dal suo stesso racconto, sdoppiata nel ruolo di narratrice e attrice, creatrice e personaggio. In fondo il diario è la forma con cui esordì la letteratura americana e spesso nei suoi momenti di passaggio si incontrano opere proposte in questa forma: anche in questo caso l'episodio del diario è centrale al punto che tra le sue righe c'è la spiegazione per il titolo: "Il limbo è la casa [in cui trovano rifugio sull'isola deserta, ma sono anche costretti a rimanere], perché non ha fine, mentre il Purgatorio finisce".

Non manca l'uso evidente di metafore impressionistiche, spesso ittiche: la decapitazione dei salmoni mentre si preconizza la chiusura della fabbrica di inscatolamento allude con evidenza al destino dei lavoratori assimilato a quello dei pesci, che ritornano con lo stesso significato esteso all'intera umanità nella più volte ripresa immagine degli animali che soffocano, un parallelo devastante, degno delle riprese nei macelli di Fassbinder, sottolinea la comunanza tra uomo, animali e mito: infatti le parole di Arnold alla chiusura sono: "Finisce qui l'avventura", chiara allusione alla epopea del Grande Nord, scelto efficacemente come location di se stesso, perché Sayles giustamente sostiene che le sue storie non esistono al di fuori delle comunità dove sono immaginate; stessa valenza si ritrova nella ricorrente suggestione di Noelle, a partire dal tema letto in classe sul "bambino d'acqua", che non riesce a respirare; nel bacino di mattanza, luogo del primo appuntamento tra i due amanti; nelle branchie delle creature ibride, descritte nel diario immaginario, ripreso come un antro panico ancestrale, dove è possibile che il destino degli uomini trovi eco in creature oniriche. Nell'episodio del diario la prassi narrativa si arricchisce di nuove valenze: il quaderno vergato dalla ragazzina nel passato viene letto dalla giovane gradualizzando la sua immedesimazione, finché il proseguimento da lei recitato si proietta nel futuro, in uno sforzo del racconto ormai autonomo di anticipare se stesso e contemporaneamente di rincorrersi nei suoi infiniti rivoli allargandosi dunque anche in dimensione temporale, fino alla composizione del dissidio tra madre e figlia in un momento struggente, che realizza realmente la catarsi del romanzo popolare che si è andato intessendo verso il finale, frutto di una buona tensione epica, mantenuta quasi sempre nei limiti dell'accettabilità, per quanto consentito dal sistema di concrezione narrativa scelto.

Non è opportuno indagare quale soluzione sarebbe stata più vicina alle corde dell'autore, né si tratta di un'operazione corretta, visto lo sforzo registico per mantenere la totale libertà al fruitore di completare la vicenda, però vale la pena considerare che una delle ultime frasi del "diario" riporta: "Abbiamo guardato dentro noi stessi e i nostri occhi ci hanno condannato".